
Quando è Dio che detta legge
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Si può fare
9 Gennaio 2023Quanto è lontano il Lingotto.
Walter Veltroni, candidandosi a primo segretario del Partito Democratico, pronunciò al Lingotto, a Torino, un discorso che merita ancora rileggere. Naturalmente si può dissentire, ma non si può negare che vi fosse, in quelle parole, delineata l’identità – quella identità che si dice di voler oggi ricercare o ricostruire – di un soggetto politico certamente nuovo e diverso dai partiti del Novecento.
“Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese. Superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di esse, di ognuno di noi. Dar vita a una forza plurale attraverso non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza riformista che l’Italia non ha mai avuto.”
Così diceva Veltroni e a me sembrava che questo volesse dire creare davvero un soggetto politico che, per citare una espressione che ho spesso usata, sapesse, nel terzo millennio, gettare gli occhiali con i quali aveva guardato la realtà, occhiali che erano stati utili in un mondo che era, ormai, definitivamente mutato (non sempre e tutto in meglio), ma che restituivano immagini sfocate, distorte, confuse e confondenti. Era necessario scegliere lenti che ci facessero vedere quel che è il mondo degli anni che stiamo vivendo, per rivelare quanto sia diverso da quello che avevamo imparato a conoscere con gli occhiali delle grandi culture politiche del secolo scorso. Avremmo visto che nessuna delle “chiavi magiche” che le ideologie ci offrivano riusciva ad aprire delle serrature completamente nuove, che le chiavi dovevamo forgiarcele giorno dopo giorno, adattandole rapidamente all’evoluzione sociale, economica, culturale della “società liquida” di Bauman. E mi pareva evidente che le nuove chiavi dovessero essere costruite anche attingendo ai metalli delle grandi culture novecentesche, ma dando vita a una “lega” nuova e originale. Quella che D’Alema definì “amalgama mal riuscita” è, in realtà, il risultato di una mancanza di coraggio – e di generosità – di chi, in fondo, pensava che il proprio metallo fosse più “nobile” di quello altrui. Ebbene, temo che il processo avviato con il congresso “costituente” di un PD ancora annichilito dalla sconfitta elettorale si muova nella stessa direzione, nel tentativo di ricercare una identità riesumando modelli – sia di forma che di valori – di partiti che non esistono più. Sento ancora evocare “comunisti” e “democristiani”: discutiamo di smilodonti quando sulla terra sono rimasti i gatti. Si è messa in opera l’ennesima pletorica commissione di “saggi”, con il compito di redigere una nuova “carta”, che definisca l’identità di un PD aggiornato e rinnovato, ma, mi sembra, si tenga conto solo delle due culture politiche alle quali facevano riferimento i due partiti maggiori che diedero avvio alla nascita del PD, DS e Margherita, facendo risalire ad essi tutti i valori costituenti. E, allora, chi viene da culture diverse si sente come un “imbucato”, uno che passava per caso e si è infilato nella sala, sedendosi nelle ultime file, ben accolto, per carità, rispettato, ma che, quando prende la parola, viene guardato con sufficienza: “Sì, va bene, è un liberale …” E hai un bel spiegare che si può essere liberali e di sinistra, che liberale e liberista sono cose diverse; hai un bel citare Gobetti, i Rosselli, Calogero e Bobbio, Ugo La Malfa, la cultura del Partito d’Azione … Tutta gente seria, stimabile, ma elitari. E, invece, secondo la lettura togliattiana di Marx, contano le masse. Lo stesso Berlinguer non offrì una alleanza alternativa alla DC ai socialisti e ai repubblicani, ma il nuovo compromesso storico a chi poteva, ancora, contare sulle masse cattoliche. E fa quasi tenerezza ascoltare un galantuomo come Bersani pronunciare l’aggettivo “popolare” come lo pronunciavano Peppone e don Camillo, come se popolare non potesse essere che buono. Me lo ricordo bene, quel simpatico “compagno”, atticciato boss di quartiere, che accusava il Comune di “darghe le case ai negri”. O quel rubizzo consigliere comunale del PCI, per il quale i gay – ma lui, popolare, diceva “recioni” – andavano messi “al muro”. E, allora, prima che i “saggi” decidano sul nuovo manifesto del PD, vorrei far notare, sommessamente, che alcune “voci” non fanno parte delle culture politiche socialiste o cattoliche, ma di quella liberale. I diritti civili, il femminismo, l’ambientalismo, sono oggi patrimonio della sinistra, ma non fanno parte, all’origine, né del pensiero marxista, né di quello cattolico. La “società aperta” è una definizione di Karl Popper ed è il filosofo liberale che non teme di affermare “Ciò significa un’enorme estensione del campo delle attività politiche. Noi possiamo chiederci che cosa vogliamo conseguire e come possiamo conseguirlo. Possiamo, per esempio, attuare un razionale programma politico per la protezione degli economicamente deboli. Possiamo fare leggi atte a limitare lo sfruttamento. Possiamo limitare la giornata lavorativa, ma possiamo fare anche molto di più. Per legge, possiamo assicurare i lavoratori (o meglio ancora, tutti i cittadini) contro l’invalidità, la disoccupazione, la vecchiaia. In questo modo possiamo rendere impossibili certe forme di sfruttamento come quelle fondate sulla debole posizione economica di un lavoratore che deve accettare qualunque cosa per non morire di fame…”1 I princìpi del pensiero liberale possono benissimo coniugarsi con quelli del pensiero socialista e cattolico senza snaturarsi. Nel discorso del Lingotto questa identità “democratica” appariva esplicita; nelle enunciazioni di alcuni nuovi “padri costituenti” mi sembra più reticente. Provo un certo disagio all’idea di dovermi, di nuovo, rassegnare a un compromesso, perché non vedo altrettanta disponibilità in quelli che si considerano “soci fondatori”, ben più impegnati a schierarsi con uno/a dei candidati alla segreteria e a prefigurare alleanze di dubitabile affidabilità. Che debba, entrando nell’ottantatreesimo anno, rinunciare a una tessera? Certamente non parteciperò alla “primarie” se prevalesse l’idea di effettuarle “on line”. Quale impegno politico si potrebbe garantire se non si chiedesse almeno il piccolissimo sforzo di uscire di casa per andare fisicamente a infilare una scheda? La democrazia deve essere semplice, non “comoda”.