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6 Gennaio 2025“E qualcosa rimane, nelle pagine chiare e le pagine scure e cancello il tuo nome dalla mia facciata e confondo i miei alibi e le tue ragioni”.
È passato mezzo secolo esatto da quando queste parole sono state scritte, musicate e cantate. Rimmel usciva infatti nel Gennaio del 1975, dando il nome a tutto l’album, essendone il brano di gran lunga più significativo. Prevedo che per molte buone ragioni sui media e sui social le celebrazioni ben presto si sprecheranno. Per precederle e non farmi intruppare nel profluvio di convenzioni e di rievocazioni musicologiche e sociologiche da specialisti, vorrei qui ricavarmi uno spazio tutto mio per parlarne, allargandomi immodestamente a qualche considerazione sulle produzioni artistiche e sul costume sociale, il che giustifica una certa lunghezza.
L’effetto evocativo di quelle prime parole della canzone, e dell’introduzione che le anticipa con l’attacco ritmato di pianoforte, è qualcosa che fa parte del mio stretto patrimonio di memorie e di sentimenti, di cui non ho alcun pudore a parlare: ascoltarle stringe ancora ogni volta cuore e stomaco. Non solo patrimonio mio, forse è patrimonio, come si dice, generazionale. Anzi di nicchia generazionale, sebbene la canzone avesse scalato allora, restandoci a lungo, le classifiche dei dischi più venduti in Italia, primo caso, da quel che so, per una canzone d’autore. Già questa un’ anomalia.
A posteriori e molto dopo, inserendo Rimmel nel ciclo della macro e soprattutto della micro storia, e dei suoi grandi e piccoli eventi, ho decretato, nel mio commentario assolutamente personale e soggettivo, che la canzone ha segnato, ebbene sì, un momento di cesura. Nella produzione musicale di sicuro, ma anche e soprattutto nel contesto sociale e culturale dell’epoca, senza che sul momento ci si accorgesse di ciò, né che, io giovane ventitreenne, me ne accorgessi. E non importa neppure se l’autore stesso, Francesco De Gregori, detto ‘il Principe’, mio quasi coetaneo, ne fosse o meno allora cosciente e quanta intenzione ci abbia messo. Non troppa, probabilmente, la storia spesso si fa con intuizioni inconsapevoli o, più semplicemente, con occasioni inconsapevoli.
Del resto, non essendomi mai confrontato, ignoro quanti, tra donne e uomini della mia generazione, abbiano letto e ascoltato Rimmel nello stesso mio modo e quanta importanza abbiano dato, allora e in seguito, ad un motivo che poteva anche confondersi con una canzonetta dell’epoca. Da parte mia, riascoltandola molte volte nel corso del tempo, le ho riconosciuto un andare controcorrente e un taglio piuttosto netto con le culture dominanti dell’epoca (più d’una e in alternativa frontale tra loro), e quindi un fare, a modo suo, e nel mio immaginario, appunto, storia.
Il perché è presto detto.
Ci trovavamo proprio a metà di un decennio contrassegnato da uno scellerato, piuttosto schifoso conflitto politico ideologico, manifestato nei modi più diversi e variegati. Dallo scontro violento e bestiale di piazza alle feroci bombe terroristiche, da folli progetti e azioni pseudorivoluzionarie, appnnaggio di élite di demoni esaltati, agli incendi, non meno devastanti, delle parole di piombo dei maître a penser di ogni colore, ma con molta caratterizzazione a sinistra. Quella engagé, che ti assegnava d’ufficio il compito di fare solo arte politicizzata, se no arte non era. La contemporanea stagione dei Diritti, la cosa ‘buona’ dei ’70, manifestatasi malgrado (e non ‘per’) gli anni e le parole di piombo, poco aveva compensato, purtroppo, il truce andazzo generale. Che l’uscita di Rimmel disturbava, eccome se disturbava. Assumendo così il sapore di un riscatto.
La controprova? L’ho scoperta, anzi ri-scoperta, perchè conosciuta a suo tempo e dimenticata, navigando tra i siti e rileggendomi una critica a dir poco distruttiva da parte di Giaime Pintor (da non confondersi con l’omonimo zio), apparsa nelle imminenze dell’uscita dell’album sulla rivista Linus, uno degli organi della sinistra snob del tempo. E’ istruttivo rileggere quelle parole, a cominciare dal titolo ”De Gregori non è nobel, è rimmel”. Vediamole in un passaggio:
“È evidente, peraltro, che l’evocazione (e la presunzione di far poesia) faccia scivolare il canto di De Gregori in un kitsch in cui non tanto Gozzano è presente, quanto i baci Perugina. Chi osasse citare il decadentismo italiano, peggio quello francese, l’ermetismo o Garcia Lorca o persino Dylan nel caso di “Buonanotte fiorellino” o di “Piccola mela”, commetterebbe un flagrante reato di lesa cultura. E nemmeno Prévert, sebbene sia il più vicino a queste melensaggini, può essere un riferimento citato senza ridere.»
In queste righe è detto tutto, anche se la critica di Giaime Pintor si riferisce all’intero album e quindi anche ad altri brani, alcuni meno noti, ma se si vuole persino di qualità poetica superiore alla canzone che dà il titolo generale. Pintor era l’emblema più smaccato dell’intellighenzia giovanile impegnata dell’epoca, figlio di Luigi, fondatore e a lungo direttore, a più riprese, del quotidiano Il Manifesto. Espressione cioè di un certo supponente tardo sessantottismo di maniera, sempre portato ad avere una lente politicizzata che mal sopportava le parentesi della soggettività: l’intimismo interiore, i ‘casini’ interiori, le sensazioni dell’anima migrante, erano allora sinonimo di disimpegno, proprio perché irriducibili alle categorie che la politica, certa politica, detta. Per il loro mix di leggerezza e profondità di fatto erano una contraddizione sbattuta in faccia agli alfieri dello slogan: “il personale è politico”. Nulla di più facile perciò punire l’affronto andando a colpire un brano e un album che, nella cornice della leggerezza musicale, riusciva tuttavia ad andare diretto al fondo dei comuni sentimenti. Assimilamdosi semmai con personalità proprio a quegli artisti, poeti e musicisti e al decadentismo stesso che Pintor cita strumentalmente, per contrasto, nella sua critica. Accostamento, il suo, involontariamente corretto che dà una chance a Rimmel proprio nel momento in cui gliele vuol togliere tutte. Effettivamente infatti un’inclinazione vagamente decadente (nota per me positiva) è riconoscibile in Rimmel, canzone e album, con un indizio già nella sua copertina. In cui un cammeo, sullo sfondo di una tappezzeraia d’antan a righe bianco nere, contiene un volto femminile di sapore chiaramente ottocentesco.
Se è vero, come si sostiene da tempo, che la cultura in Italia è stata nel secolo scorso egemonizzata dalla sinistra, per compensare, con gli interessi, la sua esclusione dal potere politico ed economico, ecco dunque una piccola creazione, un piccolo fatto di cultura, sfuggita a quella egemonia, senza peraltro farsi accogliere in alcun modo da altre di diverso segno.
Implicita poi nella critica citata, che ha voluto a tutti i costi ridurre Rimmel ad espressione del canzonettismo piccolo borghese, era la notazione che, essendo il brano e l’album andati molto in alto nelle vendite, avevano ‘fatto fare i soldi’ all’autore. Puntualmente questo essere diventato inevitabilmente commerciale e automaticamente, secondo una certa logica, disimpegnato, lo ha esposto a becere contestazioni nei concerti da parte del popolo della sinistra di piazza, in particolare da quella che allora si chiamava Autonomia Operaia. In un concerto a Milano nel ’76, proprio mentre sta cantando Rimmel, gli Autonomi interrompono l’esecuzione per chiedere al cantante: “quanto stai guadagnando stasera?’’. La sospensione dell’evento è immediata e non verrà più ripreso. L’abbinata Pintor autonomi e le due critiche, solo apparentemente differenti, bene esprimono il clima dell’epoca, con cui la canzone entrava oggettivamente in conflitto. Va da sè che questo tipo di critiche e soprattutto quelle cialtrone contestazioni abbiano costituito in seguito ai miei occhi un accrescimento di merito dell’autore. L’andazzo già allora piaceva poco anche a me, come piaceva poco a lui, che lo pagava sulla sua pelle.
Rimmel, e torno a riferirmi proprio al brano singolo che ne porta il nome, non è certo un’opera d’arte per come la si intende di norma. E del resto le canzoni in sé stesse, inserite in ogni caso nel filone ‘musica leggera’ e ‘pop music’, non sono mai state accettate pienamente nel contesto delle creazioni artistiche (e anche questo dato aprirebbe una pagina di questioni culturali e artistiche irrisolte, a cui dedicare spazio in altra occasione). Rimmel resta pur sempre una canzone, il cui contesto non è un’ accademia, ma il costume sociale diffuso. Non è opera d’arte secondo certi canoni, ma, a modo suo, leggero e sfuggente, lo è diventata per il segno che ha lasciato attraverso il suo riuscito e integrato rapporto tra la forma, una poesia in musica, e il contenuto.
Per prima cosa l’accenno di ermetismo della canzone toglieva banalità al testo, e questo era un biglietto da visita non da poco in un panorama musicale che, a dispetto dell’engagement sinistrorso dominante, continuava imperterrito con la tradizione, quella sì, realmente disimpegnata e facile per le masse incolte (l’altra cultura dominante, questa, risultata poi vincente nel decennio successivo e, direi, fino ad oggi, per cui Rimmel è quindi doppiamente, su due versanti opposti, controcorrente). Il brano faceva poi intendere, per cenni e allusioni, la trama, probabilmente autobiografica, di una relazione d’amore conclusa e un abbandonarsi alle sensazioni che quel contesto suscita. Qualcosa, cioè, di non inscatolabile in alcuna espressione ideologica, intimista al punto giusto e senza eccessi, ma con rimandi ed evocazioni larghe, profonde e lievi nello stesso tempo, con efficaci accostamenti lessicali e di note, capaci di emozionare ancora, dopo molto tempo.
Protagonista non era tanto la vicenda in sé, decisamente comune, ordinariamente e ripetitivamente presente nel 90% dei testi della musica cosiddetta leggera. Protagonista era piuttosto, nel modo di affrontarla, il susseguirsi delle sensazioni e dei pensieri. Con l’onestà e la lucidità di riconoscere, già nell’incipit, che nelle relazioni difficili e complicate in amore – e non solo, vien da dire – ci si crea alibi, non si considerano le ragioni dell’altro, e ci si camuffa truccandosi. Come richiama intenzionalmente il nome del celebre mascara del titolo, truccandosi anche nella più smaccata delle bugie che si proferiscono quando ci si lascia, quella di augurarsi di “rimanere buoni amici”. Sono queste le parole finali del testo, prima del pianoforte di chiusura in dissolvenza, e potrebbero essere lette come una concessione ad un luogo comune, una banalità canzonettistica sfuggita al controllo dell’autore. In realtà, a vedere bene, mi pare invece un consapevole ‘rifare il verso’, con empatia e sottile ironia, ad un reale luogo comune delle relazioni concluse, l’ultimo trucco di molte relazioni concluse. Protagonista era infine la memoria, persino di fatti appena accaduti, per cui nulla passa invano, e nel chiaro-scuro delle pagine del tempo che scorre veloce, “qualcosa rimane”. E’ il prender visione della potenza del flusso del tempo, che lascia e dà.
Per tutto ciò, nonostante la distanza cronologica e i cinque lunghi decenni trascorsi, in cui è successo di tutto nella storia e nella mia vita personale, quel 1975 con Rimmel è incredibilmente vicino. Perchè quella canzone ha un carattere che non ha tempo e ha l’impronta della modernità, la cifra di ogni atto umano creativo.