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19 Novembre 2019Un po’ di cronistoria. Nei primi anni ’90, si susseguirono diversi studi e convegni sul tema della conformazione della città metropolitana. Si discuteva molto del policentrismo urbano veneto, struttura ad insediamento diffuso, con una campagna industrializzata. Intrapresi una ricerca per il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, avente per tema la futura configurazione della città metropolitana veneziana. Il Dipartimento di Firenze era specializzato nello studio dell’ambiente urbano, con le sue dinamiche di sviluppo e di conflittualità.
Ci furono convegni interessanti, sulle città metropolitane, condotti da vari istituti universitari, tra cui menziono il convegno a Mestre “Città metropolitane e sviluppo regionale in Italia: le città a confronto”, del marzo 1991. L’ordinamento giuridico del momento era rappresentato dalla legge 142 dell’8/6/1990, “Ordinamento delle autonomie locali”, che all’art.17 considerava aree metropolitane le zone comprendenti i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, con i comuni aventi con questi rapporti di stretta integrazione.
Per Venezia, le ipotesi allora dibattute da vari istituti universitari e centri di ricerca erano, in estrema sintesi, le delimitazioni della città coincidenti con:
– Venezia ed il bacino dell’ex comprensorio lagunare: in pratica, secondo il Piano Comprensoriale della Regione Veneto, 16 comuni;
– Venezia ed il suo hinterland: una conformazione sperimentale con Venezia e alcuni comuni limitrofi – quali Mira, Spinea, Martellago, Mogliano, Marcon – coincidente con il bacino nel quale
si esauriva, in quel periodo, l’80% dei flussi pendolari;
– Venezia, o meglio l’area centrale della sua provincia e la gronda lagunare, comprendente 22 comuni: basata sul sistema urbano giornaliero che gravitava intorno a Venezia, interessante 18
comuni, con l’aggiunta dei 4 comuni Chioggia, Jesolo, Musile di Piave e Codevigo;
– l’allora Provincia di Venezia, non in auge come ipotesi in quanto non supportata da esigenze di integrazione derivanti da parametri allora presi in esame, ma favorita da gravitazioni e da
meccanismi amministrativi consolidati;
– la Pa.Tre.Ve, area vasta multicentrica, centro-veneta, identificata come luogo di emanazione di decisioni strategiche;
– Venezia con nessuna conformazione metropolitana, ipotesi che afferiva alla presenza del policentrismo reticolare veneto, con la presenza di tre centri (Venezia, Padova, Verona)
apprezzabili per diffusione della qualità urbana.
Nel 2014, con la legge n. 56 del 7 aprile, è stata istituita, come sappiamo, con altri nove enti territoriali di area vasta (Roma Capitale, Torino, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) l’area metropolitana veneziana, coincidente e subentrante alla ex Provincia. La mia impressione è che si sia trattato di una operazione di ripiego, con rinuncia a quell’approfondimento che aveva tenuto banco più di venti anni prima, anche se l’ipotesi di area metropolitana coincidente con la provincia ha una sua rispettabilità.
Rispetto ai primi anni ’90, ci troviamo con una diversa situazione economica, e siamo alle prese con un diffuso atteggiamento contrario allo sviluppo industriale e infrastrutturale, a volte di origine moralistica, anche a causa dei tanti scandali emersi intorno alle grandi o piccole opere, a volte di origine ideologica, con i richiami alla “decrescita felice”.
Ho richiamato le tematiche concernenti la città metropolitana perché, ora come allora, il concetto di area allargata è fondamentale come strumento culturale di pianificazione e organizzativo: si pensi ai servizi infrastrutturali, all’aeroporto, all’università; alla riqualificazione di Porto Marghera; alle attività industriali e artigianali del vetro, del legno, delle calzature. Le strategie di sviluppo e di gestione dovrebbero essere complessive, integrative.
I temi che postulano la visione di un’area vasta, che trascendono l’amministrazione e le scelte politiche dei singoli comuni, sono i grandi temi tuttora prioritari, come gli investimenti produttivi, la valorizzazione dei beni culturali, lo sviluppo del territorio urbano, le infrastrutture e le reti di comunicazione (anche e soprattutto per i flussi pendolari), la grande distribuzione commerciale, la difesa e la riqualificazione del territorio, nel novero del monitoraggio dei cambiamenti climatici, la tutela idrogeologica, i settori della sanità, della scuola e della formazione professionale; inoltre, emersi in importanza negli ultimi anni, il presidio della legalità ed il controllo e la gestione dell’immigrazione.
Che si tratti comunque di area vasta, di un’area di gravitazione intorno ad una città, o che si tratti di una città con dimensioni inferiori, specializzata, con una propria vocazione, e però – condizione essenziale – inserita in una rete di città complementari – come può essere quella dei capoluoghi veneti -, è indispensabile l’integrazione tra i vari centri, la costruzione di reti con le altre città.
A mio avviso, la creazione di un unico comune comprendente il centro storico veneziano, in confronto alla tendenza alla gestione di aree complesse, dà l’impressione di un processo di artificiosa semplificazione, di una deriva localistica.
Si afferma, a proposito di Venezia nucleo storico, che una città ridotta consentirebbe di seguire meglio le problematiche dei suoi cittadini; ma la maggiore attenzione e le scelte migliori per la città (sia Venezia o sia Mestre) sono dovute non alla sua dimensione, ma alla qualità dei suoi amministratori, alla loro levatura culturale e morale, alla loro capacità progettuale; ed inoltre, agli apporti qualificati e disinteressati di studi e proposte provenienti dall’esterno.
Si afferma che, creando due comuni distinti, esiste pur sempre la città metropolitana, esiste la regione, esistono ambiti di competenza statale (anche se, pensando per esempio al controllo delle acque, sussiste l’impressione, almeno dall’esterno, di una confusione di ruoli e competenze giuridiche tra i diversi enti territoriali). Ma perché giungere a questa divisione? Qual è la ratio profonda, a fronte di compiti che postulano sinergie, unione di risorse e soprattutto condivisione di decisioni? Infatti, una delle difficoltà per la gestione degli interventi e del loro funzionamento nel nostro paese è la difficoltà di intesa tra i vari livelli amministrativi, in gradualità verticale – tra comuni, aree metropolitane, regioni, Stato – e a livello orizzontale – tra i vari comuni o tra aree regionali. Difficoltà dovute non tanto alla non chiarezza di compiti e competenze, ma soprattutto alle diverse gestioni politiche. Perché allora creare un ulteriore centro amministrativo che potrebbe contribuire a disaccordi e conflittualità?