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22 Luglio 2017“Riprendiamoci la città”. E’ questo il motto che si sente un po’ dappertutto ripetere nel corso del quinquennio tra un’elezione comunale e l’altra. Naturalmente è il motto dei perdenti dell’ultima tornata. Non solo a Venezia, non solo in italia, anche se da noi il caso Brugnaro e l’opposizione cittadina che gli sta montando contro da tutte le parti è paradigmatico al riguardo: la politica come ring in cui c’è chi attacca e chi è costretto a difendersi dalla gragnuola di pugni, contrattaccando furioso. La sensazione è che se anche quel sindaco, Brugnaro o chi per esso, avesse fatto l’opposto di ciò che ha fatto o non ha fatto, la parte di città che non l’ha votato gli sarebbe andata contro lo stesso, avendo decretato il giudizio a priori quando si è candidato e si sarebbe ugualmente unita a chi l’ha votato, ma ha invece repentinamente cambiato idea; tutto ciò ha forti analogie con ciò che è successo a Renzi e può ancora succedergli, ma è un’analogia nello schema e non nella sostanza perché qui si parla soprattutto di elezioni amministrative. E su questo piano la cosa è generalizzata e si ripropone ovunque quantomeno in Italia a livello di governo cittadino. Noto che questa dialettica politica di concorrenza permanente continua ad essere vista come il sale della politica democratica e non a caso il sistema elettorale dei sindaci è quello che meglio consente questo ping pong permanente, in cui vola di qua e di là nel tempo la pallina del potere, mentre a star ferma di solito è la città da governare ( o lo Stato o altro ancora, laddove c’è lo stesso sistema). Vedo che anche l’amico Luigi Marchetti nella sua lucida analisi delle recenti tornate amministrative, conclude nello stesso modo: è sana l’alternanza.
Lo dico chiaro e lo pongo come problema anche se obiettivamente ho poche proposte risolutive da fare: a me questa questione dell’alternanza come sale della politica democratica non convince per niente.
So che può sembrare un’affermazione bizzarra parlando di politica, la quale, si dirà, ha le sue regole di sempre. Mi par già di sentire l’obiezione spontanea: “è la politica, bellezza”. Eppure vedete bene che il governare realmente, sia in fase di manutenzione ordinaria, sia come continua riforma e gestione di nuovi progetti, avrebbe bisogno di due requisiti che la dialettica politica democratica nega per sua natura: la continuità di anni davanti a chi ha il potere ( non necessariamente nella stessa persona), ben più di cinque, ma anche il doppio o il triplo e un consenso ampio e, come si dice, qualificato nella maggioranza, basato su una forte coesione sociale e di conseguenza coeso nella rappresentanza politica della comunità che si rappresenta. Si possono sollevare dubbi sulla coesione sociale e sulla maggioranza qualificata di una forza politica vincente quandanche con il 60% di favorevoli, che tenendo conto dei votanti reali e dei non votanti per età è sempre sicuramente il 30% dei residenti effettivi di quel tal comune?
Il lessico, che accompagna questi fulgidi momenti di democrazia e che i mass media contribuiscono a enfatizzare, è quello tipico dell’agonismo più spinto. “La sfida”, la “vittoria”, la “sconfitta”, ma è ancora l’immagine bellica a prevalere: governo “contendibile” ( più bellico di così…) oppure ”espugnare” ( l’ha usato nel suo titolo e nell’immagine che l’accompagna anche appunto il nostro Marchetti) e di conseguenza “difendere” sono immagini da assedio medievale di una città o di un castello o una roccaforte ( anche l’“assedio” stesso è termine massmediatico ricorrente). Chi sta nel castello e ne ha il potere organizza la difesa da subito, appena l’ha conquistato, vale a dire una difesa preventiva con la propaganda sistematica di ciò che di buono sta facendo.
Ma tornando per un momento al motto iniziale “riprendiamoci la città”, in questo caso il lessico presume che nell’elezione precedente ci sia stato un furto con destrezza e che la città spetti di diritto a chi l’ultima volta ha perso per un atto di violenza e che pensa: la città è solo nostra. Con questo sistema offuscato dalle cortine fumogene di una propaganda permanente, visto che è molto difficile capire quanto c’è di vero e quanto di gonfiato, non si è mai in grado di valutare l’operato reale del Sindaco di turno e l’elettore procede alla cieca. L’elettore però in questi casi si comporta in modo diversificato a seconda della sua natura per così dire antropologica. C’è chi vota quel Sindaco, a prescindere, non come persona ma per la sua appartenenza politica e allora questo crederà o fingerà di credere ciecamente alla propaganda e c’è chi l’ha invece votato per delusione per il precedente a cui prima aveva affidato il suo consenso, e allora quest’ultimo già tre mesi dopo, aspettandolo al varco sistematicamente ad ogni suo starnuto, ostenta il pollice verso il basso. E’ l’elettore che cinque anni dopo decreterà il ‘sano’ ricambio votando l’avversario dell’uscente sfidante, sempre che non ricambi idea lungo strada. L’ “opposizione” è l’altra parola chiave molto trasparente nell’evocare la logica dei perdenti che cercano di non esserlo mai e diventare vincenti sabotando in tutti i modi ciò che fa chi è al potere, per dimostrare che gli elettori si sono sbagliati e che avevano ragione loro. Nell’“opposizione” l’assedio comincia ad essere organizzato la sera stessa della sconfitta e consiste nel dichiarare pubblicamente che sono ‘cazzate cosmiche’ le scelte di chi governa. Sempre e comunque? Non sempre e comunque, diciamo spesso. L’alternativa è intestarsi le poche scelte positive di chi governa cercando di dimostrare che quella scelta buona era stata già progettata, se non anche avviata, da loro precedentemente. Come dire: è cosa nostra e tu hai solo copiato. Che la cosa sia stata fatta e che sia un bene comune a loro poco importa, ma è determinante sapere di chi è il merito. Naturalmente infine l’”opposizione” gufa, come usa dire oggi, e comunque tifa che le cose vadano sempre male per la città, se no come si fa a subentrare la volta dopo se le cose vanno bene? Curioso il meccanismo della dialettica politica democratica: una parte dei cittadini preferisce che le cose vadano male per dimostrare l’inettitudine di chi governa, ma per fortuna provvisoriamente: quando subentreranno loro e le parti si invertiranno.
Tutto questo sistema piace molto a chi ha bisogno di attivare un conflitto permanente per dimostrare di esistere, vale per i politici, ma vale anche e soprattutto per gli elettori, i quali, oltre alle occasioni familiari che non sempre si presentano favorevoli ( qualche volta purtroppo si), hanno un gran bisogno permanente di menar le mani e la politica si presta molto come palestra.
A me, abituato ad essere ormai un disadattato, il sistema solleva molti dubbi se lo valuto razionalmente e invece di pelle più che dubbi mi fa proprio ribrezzo. Ma restando razionali: Ogni nuovo sindaco che subentra orgogliosamente, dopo aver battuto al ballottaggio magari con il 50.5 l’avversario lasciato ingnominiosamente al 49.5, si dedica in modo sistematico allo spoyl sistem, cioè al disfare sistematicamente, nelle nomine, nei progetti avviati, tutto ciò che di buono o meno buono ha fatto l’amministrazione precedente; che, beninteso, a sua volta, quando era subentrata, aveva fatto altrettanto. Se uno fosse catapultato sulla terra e gli raccontassero come funziona direbbe di getto che quest’alternanza è la miglior ricetta per rendere all’immobilismo permanente le città. E invece su questo da destra, da sinistra, dal centro tutti glissano senza batter ciglio, o meglio lo ritengono connaturato alla logica della politica.
E veniamo infine all’antipolitica. Della politica gli antipolitici denunciano la corruzione, l’occupazione indebita del potere, le forme oligarchiche, ma non si sognano di contraddire questa logica, perchè anzi la loro furibonda crociata vive di questa logica con cui fare finalmente giustizia per prendersi finalmente il legittimo e derubato potere, naturalmente per conto dei cittadini vessati di cui si sentono naturaliter gli unici rappresentanti. Per poi di questa logica anche morire, come si è visto in non pochi comuni dove sono stati sostituiti alla prima tornata ( da noi a Mira per esempio).
La conclusione su cui riflettere non ha sbocchi, per il momento. Perché a chi paternalisticamente ti ricorda, battendoti una mano sulla spalla“ è la politica, bellezza” dovresti a questo punto ribattere “no caro mio, è la democrazia, bellezza”. C’è poco da dire, perché quando in epoca predemocratica il castello era tenuto per decenni sempre dallo stesso sovrano non c’erano gli assedi e la politica aveva tutto il tempo di mettere in campo i suoi progetti, buoni e cattivi. Gli assedi li facevano semmai i nemici esterni e quelli non mancavano mandando in crisi la politica del fare da un altro punto di vista ( in guerra permanente ugualmente non si combina granchè). Ma l’impotenza della democrazia sta comunque in questa sua dinamica interna basata sull’alternanza e sorvolo sulle lentezze che si è data circondandosi di pesi e contrappesi e di diritti di veto, dal più alto e istituzionale al più basso di strada, dove il diritto e le libertà civile, di parola e di protesta, si traducono nella libertà di istituire comitati e comitatini di borgo o di quartiere che si mettono di traverso finanche al completamento di un ospedale per salvare tre pioppi.
Si può avere l’impressione che qui io voglia mettere in discussione quindi, più che la politica, la democrazia in sé stessa e i diritti civili; ma non è così perché, se anche avessi questa intenzione folle, so altrettanto bene che, al di là del valore in sé che evidentemente esiste, la modernità della democrazia semplicemente non può farne a meno e una vita civile senza istituzioni democraticamente elette semplicemente non reggerebbe.
Desidero per un momento però mettere chi legge di fronte alla contraddizione di una formula storicamente recente, il “potere del popolo e della gente”, che si è strutturata in un sistema agonistico-competitivo da una parte e di mille voci in capitolo dall’altra (non necessariamente intrinsechi alla democrazia per forza questi sistemi, si ammetterà) in grado di rendere pesantemente inefficiente e fallimentare l’azione della politica. Tant’è che qualche volta si può favoleggiare con nostalgia di un sovrano illuminato che decide da solo cose buone, mantenendo per altro i diritti civili, dal momento che democrazia da una parte e diritti e libertà civili dall’altra non sono la stessa cosa ( semmai la democrazia è uno dei diritti civili). Nella storia è accaduto qualche volta: nella seconda metà dell‘800 in Giappone un imperatore illuminato, Mutsuhito, da solo e da sovrano assoluto insediatosi a soli 15 anni, ha abolito nientemeno che il feudalesimo, operato una rivoluzione industriale e fatto tutte le riforme che la modernità di allora richiedeva. C’è da meditare.