
Le appassionate di Maria Novella De Luca e Simonetta Fiori
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La pace degli uomini forti e la responsabilità delle democrazie
9 Ottobre 2025Flottiglia, scioperi e contraddizioni
Per una parte della sinistra, la causa palestinese è diventata il rifugio simbolico di un’identità smarrita: l’eco della stagione partigiana e di un internazionalismo ridotto a rito morale. (cit. M. Coccia)
Le piazze pro-Gaza non rappresentano blocchi elettorali determinanti. Non spostano voti significativi, non trasformano i loro slogan in programmi di governo. Sono minoranze attive, certo, ma minoranze. Eppure, la loro importanza non si misura in “per cento”: si misura nella capacità di costruire identità, di costringere partiti e media a pronunciarsi, di evocare l’idea stessa di un’ingiustizia irrimediabile. Sono un rito più che una strategia, ma, in un tempo di politica rarefatta, il rito diventa sostanza.
Adesso però che il racconto epico della Flottiglia è finito che dirà il Movimento? Perché l’ossigeno dell’indignazione è tanto, ma prima o poi comincia a scarseggiare e dunque viene il momento in cui bisogna cambiare spartito e indicare una linea politica chiara: questi cortei, che rappresentano il sentire comune di una larga parte del centrosinistra, pronti a mobilitarsi in nome della Pace, sostengono anche loro, oppure no, il piano di Trump per la pace a Gaza? Nelle piazze, nei movimenti, non ci si può astenere su un punto di così cruciale importanza. Perché la sua attuazione potrebbe mettere fine a quel massacro che tutti condannano.
Anche perché quella che è emersa nel contesto delle manifestazioni come prevalente è una linea antisemita: hanno sostenuto “Palestina libera dal fiume al mare”, il che significa la cacciata degli israeliani da quella terra; hanno dileggiato gli ostaggi del 7 ottobre, come ultimamente al teatro di Reggio Emilia; fanno il tifo per la resistenza di Hamas che è il cancro che ammorba da decenni la possibilità di raggiungere un simulacro di pace in quella terra martoriata. Anche se non si può certo sottovalutare l’effetto emotivo generato dall’intollerabile prosecuzione del massacro perpetrato dall’IDF che ha prodotto decine di migliaia di morti fra la popolazione civile palestinese.
Più che agli studenti che occupano i licei e le facoltà, come accade a ogni generazione, il compito di assumere una posizione che vada oltre quella indignada spetta ai gruppi dirigenti.
In questo contesto movimentista il “Campo largo” si è schierato; poi è arrivata la proposta di pace di Trump che si sta prefigurando come una svolta storica, stante l’adesione di Hamas e di Israele, che potrebbe portare nelle prossime ore/giorni una pace controllata in quella parte del Medio Oriente da sempre in guerra. Ciò costituisce evidentemente il fatto nuovo della situazione ma non si è ancora capita la posizione del Partito democratico: va salutato come una vittoria trumpiana o perciò stesso va criticato? In Parlamento i partiti di opposizione possono anche astenersi, come hanno fatto quelli del Campo largo, lo fanno sempre più spesso anche per non mostrare le divergenze interne. Ma il nodo va sciolto.
Il problema è sempre lo stesso, quello della prevalenza di un’impostazione ideologico-protestaria rispetto a quella che dovrebbe essere propria di un partito a vocazione governativa, che, come tale, dovrebbe indicare soluzioni concrete. Schlein non porta mai distinzioni, si butta a inseguire tutti i palloni come un calciatore senza esperienza.
Hanno indicato una strada diversa Carlo Calenda, Matteo Renzi, Luigi Marattin e i riformisti del Pd. Stavolta sono stati molto determinati. Vedremo presto se si è trattato di una rondine, o di una nuova primavera.
E per finire: qual è il motivo per il quale non si sono avuti molti riscontri in altre nazioni europee pur coinvolte dalla presenza di loro equipaggi, a differenza di una mobilitazione italiana così ampia?
In molti paesi, la Flotilla è stata trattata solo marginalmente dai media, spesso solo dopo l’intercettazione da parte di Israele? In altri paesi, la partecipazione non ha coinvolto parlamentari o personaggi pubblici di primo piano, riducendo l’impatto mediatico? Alcuni governi europei hanno adottato posizioni più neutre con una diversa sensibilità politica scoraggiando mobilitazioni di massa? L’indecisione verso la condanna di Israele da parte di Meloni e di tutto il suo Governo ha alimentato la contrapposizione? La partenza da porti italiani ha permesso una mobilitazione territoriale che altri paesi non hanno potuto replicare?
Il balletto delle elezioni regionali
10% in meno rispetto alle ultime elezioni nelle Marche, solo 1% in meno in Calabria ma di una percentuale complessiva di votanti pari al 44,36%: la disaffezione dell’elettorato si amplia e si consolida. Eppure si tratta pur sempre di eleggere organismi che dovrebbero essere almeno fisicamente più vicini all’elettorato di quelli nazionali.
In realtà le Regioni per come sona andate configurandosi in questi decenni sono diventate sempre più organismi che hanno prodotto poco per le realtà locali, hanno speso molto, hanno appesantito di un bel po’ la burocrazia e l’ordinamento amministrativo, sono servite come greppie elettorali in cui sistemare persone non sempre di livello, sono diventate un teatrino in cui recita a copione quasi solo il Presidente (Governatore per gli ignoranti), trasformando la Regione in una Repubblica presidenziale.
E questo ha comportato un tasso di disaffezione che si aggiunge al già scarso appeal che esercitano le consultazioni nazionali sul cittadino medio.
Il non voto sfida la democrazia nella misura in cui costituisce una critica, nemmeno tanto velata, ai suoi attori e alle sue procedure. Astenendosi, gli elettori intendono ripagare i governanti con la loro stessa moneta, le cui due facce sono l’indifferenza e l’ostilità.
il tema della scarsa partecipazione al voto fa fatica a imporsi sulla scena pubblica e politica. Il dibattito sull’argomento ha, al più, una natura carsica ed estemporanea. L’elefante nella stanza continua a essere ignorato. Solo a cavallo delle elezioni, politici e opinionisti si accorgono della sua esistenza, spenti i riflettori, l’elefante viene però prontamente ricacciato via. Proprio come avviene con i cattivi pensieri.
Non esultano, ma fanno buon viso a cattiva sorte, i politici e i partiti, che si guardano bene dal ragionare in termini di voti assoluti (e non percentuali) e che, alle brutte, possono sempre dire di esser stati sbaragliati non da avversari veri, ma da una oscura e invincibile armata, quella degli astenuti. Le forze in campo erano impari e, alla fin fine, anche la sconfitta risulta innocua, dato che non pregiudica seggi e posizioni di potere. Si fregano le mani i giornalisti e gli opinionisti che possono contare, per qualche giorno almeno e a prezzi assai modici, su un ospite fisso delle loro analisi e talk show.
Il Gran Teatro La Fenice, Venezi: l’invasione della politica
Beatrice Venezi è stata nominata a Venezia come «direttore musicale», ma è stata contestata all’unanimità da orchestra e coro che ne chiedono la revoca con la solidarietà di altri teatri lirici italiani.
“La scelta di un direttore musicale va condivisa con le masse artistiche, che qui sono state messe di fronte al fatto compiuto. Non ha senso, nell’interesse di un ente, nominare qualcuno che non è benvoluto. Parliamo di un teatro storico che fa l’esaurito a ogni recita e che è stato diretto da gente come Chung e Harding. È impossibile non coinvolgere le masse artistiche in una scelta di questo genere”. Questo è il mantra che attraversa le 14.000 firme raccolte, la rinuncia di più di 140 abbonati e i pronunciamenti del Teatro dell’Opera di Roma e del Teatro Bellini di Catania, supportati anche dalla rappresentanza sindacale dell’Orchestra Sinfonica della Rai e dai pronunciamenti dell’Arena di Verona, del Maggio fiorentino, della Scala.
Tutti comunisti all’Orchestra della Fenice e anche altrove?
Nel mondo anglosassone nella musica entrano gli sponsor, non la politica. La commissione che decide la nomina è fatta da un manager dell’orchestra, dal direttore artistico e da alcuni suoi musicisti. Anche in Europa le masse vengono interpellate, e prima di assumere un incarico un direttore di un teatro deve averci lavorato, cosa che non è avvenuta in questa vicenda.
«Beatrice Venezi dovrebbe fare un passo indietro. Lo dico nel suo interesse. La Fenice non è una palestra per un giovane direttore, ha bisogno di un nome che aumenti la qualità, non di chi ne approfitta per motivi di carriera». Sono le parole di un’intervista a Fabio Luisi che dirige a Dallas, Tokio e a Copenaghen. In passato ha avuto incarichi stabili al Metropolitan di New York, a Dresda, a Lipsia, al Maggio di Firenze.
«Un direttore musicale deve avere una expertise specialistica che non è dire “sei bravo” o “non sei bravo”, ma sono le collaborazioni con orchestre internazionali, le partecipazioni a festival di primaria importanza. E da questo punto di vista è impressionante la scarsità del curriculum della Venezi. Anche la discografia è ridottissima. Soprattutto non c’entra niente che sia di centrodestra o sostenuta dal centrodestra. Smettiamola con queste sciocchezze. Beatrice Venezi semplicemente non ha il curriculum di competenze professionali all’altezza di un teatro del prestigio internazionale de La Fenice di Venezia. Questo è il punto», chiarisce Cristiano Chiarot, l’ex sovraintendente del Teatro la Fenice che tanti successi ha mietuto durante la sua gestione.
Una vicenda artistica che si è trasformata in un caso politico: Venezi è infatti molto vicina a Fratelli d’Italia e amica personale di Giorgia Meloni.
Ennesimo episodio che rivela come la cultura continui a rappresentare il vero tallone d’Achille della destra italiana. È vissuta come un mondo distante, separato, l’ultima sfera dalla quale la destra si sente esclusa e nei confronti della quale ha elaborato, nel tempo, un radicato complesso d’inferiorità. Non sorprende, allora, che uno dei primi obiettivi dei “fratelli d’Italia” sia stato proprio l’assalto agli apparati culturali dello Stato, a cui imprimere il segno di una presunta inversione egemonica.
“L’attenzione mediatica, anche quando controversa, se ben gestita si trasforma in curiosità per cui avere a Venezia un direttore d’orchestra di talento, donna, giovane e con una forte visibilità mediatica internazionale, è un investimento sul futuro della Fenice” sono le parole del Sovrintendente Colabianchi, unica figura di nomina politica di destra-centro, che testimoniano la volontà di effettuare una pura operazione di marketing a discapito della qualità della scelta.