Coronavirus, la lezione strategica
10 Marzo 2020EMERGENZA C19, UNA LEZIONE PER TUTTE LE ALTRE
15 Marzo 2020Si prospetta quasi un mese di semi-quarantena e appare un esercizio di eccessivo ottimismo pensare al “dopo”, concentrati come siamo (comprensibilmente) sull’emergenza dell’oggi e sulla conta dei contagi. Tuttavia proviamoci, approfittando se non altro del maggior tempo forzatamente a disposizione.
Si spreca sui social e nei commenti pubblici la tesi che il vuoto pneumatico di turisti indotto dall’emergenza Covid 19 – e il conseguente disastro economico per molti – sia una specie di nemesi biblica che punisce l’irresponsabile adagiamento della città sulla cosiddetta monocultura turistica.
In realtà la tesi è discutibile. Vero che tipicamente il turismo è uno dei primi settori impattati ma questa pandemia avrà effetti disastrosi su tutti i settori produttivi. Anche se fossimo stati un’economia “sana” e diversificata, anche avessimo avuto start up a go-go, artigiani ad ogni angolo, anche fossimo stati il paradiso dei Centri Studi Internazionali, della Cultura, della Produzione Immateriale.. saremmo in questo momento in ginocchio esattamente come sono le altre città e regioni d’Italia, come lo è la Cina e come, probabilmente, capiterà altrove nel mondo.
Resta però il fatto che è assolutamente vero che è stata scellerata la scelta – o meglio: la “non scelta” – degli ultimi lustri di non governare processi epocali come la caduta del Muro, l’avvento delle low cost e l’apertura del mercato alle locazioni private grazie a internet che hanno fatto esplodere i numeri del turismo mondiale ovviamente impattando su Venezia. Si è lasciato fare al mercato. Un po’ per ignavia, un po’ per inadeguatezza e, molto, perché il fiume di denaro che si è riversato in città cadeva e cade nelle tasche di molti e mettersi di traverso era a dir poco impopolare.
Insomma la realtà era ed è sotto gli occhi di tutti senza bisogno dell’infame mostriciattolo. Qual è allora la peculiarità di quello a cui stiamo assistendo? Che questa Venezia ai tempi del corona virus, per parodiare Garcia Marquez, costituisce una sperimentazione sociale di massa, altrimenti irrealizzabile, dove i carrelli della spesa in giro sono più dei trolley, i vaporetti (troppo) vuoti, calli e campi se non vuoti tranquillamente percorribili.. una sensazione di anno zero, di realtà sospesa, di fine di un’epoca. Insomma per merito, paradossalmente, del virus ci è offerta l’occasione per una riflessione a tutto tondo sul futuro di questa città. Sulla vexata quaestio di quale economia, non sostitutiva dell’industria turistica (che sarebbe impossibile e neppure auspicabile), ma aggiuntiva e contemporaneamente competitiva a questa.
Fino a qui, tutti d’accordo o quasi. Peccato che sia più facile a dirsi che a farsi. Perché guarda caso c’è una marea di articoli, analisi, reportage sulla stampa nazionale e estera su questa situazione ma di controproposte serie, fattibili e realistiche non ce ne sono affatto. O meglio, si fermano ai titoli, agli auspici, alle buone intenzioni. Per intendersi – e qui so bene che mi attirerò le critiche di molte anime belle – non fanno parte della categoria “proposte serie, fattibili e realistiche” le narrazioni che esaltano l’elemento acqua come peculiarità, la bellezza di essere lenti, il fascino del remo, che sovrastimano le potenzialità dell’artigiano artistico… insomma tutto l’armamentario ideologico ambientalista chic che ben conosciamo (con cui questa testata si è spesso confrontata). Tutto molto colto e romantico ma con potenzialità economiche risibili, non assolutamente competitive col turismo. E spesso virato verso una concezione di città che tutto può tranne che attrarre nuova linfa.
Naturalmente non esiste una soluzione taumaturgica. Ma alcuni punti sono meritevoli di riflessione.
Il primo è che la residenzialità è il valore, prioritario, da difendere. Perché la residenzialità trascina con sé altre funzioni accessorie che procurano lavoro. I negozi di vicinato, quelli non sostituibili dal supermercato, come la merceria, il negozio di vestiti che non sia la griffe inavvicinabile, il negozietto che vende piccole cose per la casa, il laboratorio che ripara elettrodomestici.. E la residenzialità si difende, accanto alla politica degli alloggi pubblici, ovvero recuperare tutti quelli disponibili e magari mettere in piedi una politica di convenzioni pluriennali con gli inquilini per il restauro, nel contrasto senza meno al dilagare delle locazioni turistiche. Ne abbiamo trattato molte volte in questa testata e non mi dilungo oltre; solo merita riflessione il fatto che affittare la casa ai turisti non è “economia”. È prostituzione. Una città deve trovare i mezzi per il proprio sostentamento senza vendere, letteralmente, sé stessa. È come una fabbrica che per vivere e prosperare deve produrre e vendere manufatti, non vendere i macchinari o affittare i locali per farne il magazzino del capannone adiacente.
Prevengo l’obiezione: ma come pretendi di attrarre abitanti se non offri loro prospettive di lavoro? Rispondo che il rapporto causa – effetto tra i due aspetti è interattivo, diciamo così. Sono legati in una specie di spirale, virtuosa o viziosa a seconda di quello che si riesce (o si vuole) mettere in atto. Perché se è vero che il lavoro crea abitanti, è vero anche il contrario: gli abitanti creano lavoro. Oltre ai predetti servizi per la popolazione, se ne gioverebbe anche l’attrattività della città stessa. Per esempio, una delle tante ricette che vengono proposte è l’insediamento in Centro Storico di Centri Studi Internazionali (in primis quello sui mutamenti climatici), una istituzione europea, fondazioni e università internazionali. Va benissimo. Ma una città si mette in gioco, in concorrenza con altre candidate, quando offre ai potenziali nuovi funzionari, esperti, professori ecc. una prospettiva attrattiva. E viceversa, una città che non ha un’anima, che non ha attrattiva urbana, che non offre scuole internazionali, non ha neppure le carte da giocarsi per attrarre funzionari di alto livello, professori, una nomenclatura alta (che magari come censo potrebbe essere tale da permettersi di vivere nella costosa Venezia). La parola chiave è competitività. Ma di che competitività parliamo se perfino la posa della fibra è stata oggetto di polemiche?
Infine la considerazione, banale ma troppo spesso sottaciuta, che per vivere nella Venezia d’acqua, non necessariamente il lavoro deve trovarsi nella stessa. Perché Venezia può e deve essere abitata anche da tecnici, ingegneri, medici e quant’altro che lavorano a Marghera, a Marcon, a Tessera.. insomma nell’area metropolitana. Lo sapevate per esempio che in via Torino (dico: via Torino Mestre, non Cape Canaveral..) opera una assoluta eccellenza in campo aerospaziale? Sotto questa prospettiva il panorama delle potenzialità lavorative ovviamente appare un po’ meno monoculturale.. Ma ovviamente va difeso, va tutelato, possibilmente sviluppato e, naturalmente, ne va assicurata con ragionevolezza la compatibilità ambientale. Ma guarda caso, tutto un certo mondo ambientalista, quello che un giorno sì e l’altro pure alza alti lai al degrado socio-economico di Venezia, ha un atteggiamento di contrapposizione, direi di opposizione a tutti gli asset economici di questo tipo. Sentita con le mie orecchie, per esempio, una delle figure di punta di UACP definire Porto e Aeroporto come “problemi” tout court. Nel mentre (http://www.luminosigiorni.it/2020/01/ma-che-ci-frega-del-porto/) il Porto non può neppure procedere al mantenimento del pescaggio dei canali. E tutti i player di potenziale sviluppo e indotto economico sono visti con sospetto e spesso come il male assoluto, espressione di interessi opachi, capitalismo becero e nemici di gentil Natura.
Sono stato una volta rimproverato, da uno che si crede figo, uno di quelli che scrivono in testate più chic di Luminosi Giorni, di avere una visione novecentesca, superata, da ingegnere. O meglio di non avere Visione… Peccato che non ce ne sia uno, di questi spocchiosi intellettuali, che abbia mai delineato una prospettiva concreta e fattibile di futuro economico della città che vada oltre gli slogan. Bravi a porre domande, meno bravi a dare risposte.