
Dal sogno all’incubo. Dall’incubo a nuovi sogni?
6 Ottobre 2025
Lo smarrimento dei partiti in Europa
8 Ottobre 202556 conflitti attivi nel Mondo Secondo l’Uppsala Conflict Data Program. Ucraina e Medio Oriente sono geograficamente e culturalmente più vicini all’Europa, e coinvolgono attori globali come NATO, Russia, USA, Iran, Israele e che più degli altri attirano attenzione, creano tensioni, generano minacce.
L’autocrate che siede, quasi ininterrottamente a Mosca da più di 25 anni – la parentesi di Medvedev (2008–2012), formalmente presidente, con Putin che ha mantenuto il potere come primo ministro, è servita solo ad aggirare la costituzione – ha un piano preciso: la rivincita dell’umiliazione subita a causa del dissolvimento dell’Unione Sovietica, il riscatto del tradizionalismo oscurantista ai danni del multiculturalismo globale e l’ascesa del nazionalismo populista. E’ dal 2019 che Putin affila le sue armi per un disegno di Imperialismo millenarista: Georgia, Crimea (2014), Bielorussia, Donbass, una sfilza annessioni, dirette e indirette.
A febbraio 2022 scatena l’invasione dell’Ucraina con una “operazione militare speciale”, definizione ufficiale russa per evitare il termine “guerra”, per la “denazificazione” e “demilitarizzazione” del paese, giustificandola con la necessità di proteggere le popolazioni del Donbass, a suo dire vittime di “genocidio”, e per contrastare l’espansione aggressiva della NATO – ma l’adesione dei paesi dell’Est è avvenuta su base volontaria – che percepiva come una minaccia alla sicurezza russa.
Doveva finire in pochi mesi ma la resistenza ucraina guidata da Zelensky, che è diventato un punto di riferimento internazionale per la difesa della democrazia, ha bloccato le mire espansionistiche russe e di fatto ha congelato l’invasione russa.
L’Europa assieme agli USA, anche se dopo l’avvento di Trump con meno entusiasmo e limitando di molto gli aiuti militari, hanno dato il loro contributo fattivo nell’aiutare l’Ucraina a resistere.
Ciò non toglie che la guerra abbia assunto i caratteri di una guerra ibrida che si combatte non solo con le armi convenzionali che si stima abbia fatto fino ad oggi più di un milione di morti – dalla parte ucraina il contributo di civili ammazzati è il più rilevante – a cui si è aggiunto l’uso massiccio delle attività attuate con i droni, ma soprattutto con gli attacchi informatici e la propaganda, la disinformatia, che ammorba il web e genera una quantità mostruosa di fake news in tutta Europa con particolare riguardo all’Italia dove non mancano e non sono mai mancati i sostenitori più o meno occulti della politica putiniana.
Trump, alla ricerca imperterrita di conquistare la designazione al Premio Nobel (!!!) si è prodotto in una serie contraddittoria di azioni “diplomatiche” per cercare di fermare il conflitto: primo ha delegittimato in modo clamoroso Zelensky nel famoso incontro/scontro alla Casa Bianca di fine febbraio 2025. Poi parla e riparla al telefono con Putin, suo grande amico e sodale dei suoi obiettivi “imperialisti”. Poi ci ripensa e rivede le sue posizioni: nuove dichiarazioni e nuovi “penultimatum”. Alla fine, accoglie Putin ad Anchorage dove letteralmente gli stende il tappeto rosso e lo tratta da amicone, rivalutandolo agli occhi del Mondo.
Se ne deve pentire perché il russo lo prende per il naso e gli sfodera un’azione diplomatica di tutt’altro impianto saldando ancor più strettamente i rapporti con i B(R)ICS, che definisce un nuovo assetto dei rapporti di forza commerciali e valoriali negli equilibri mondiali.
Quel che sposta l’attenzione dai fallimenti trumpiani è l’attacco di Israele agli impianti nucleari iraniani e poco tempo dopo l’attacco missilistico a Doha nel tentativo di colpire quello che è rimasto del direttorio di Hamas. La guerra di Gaza che non si è mai fermata assume un significato strategico anche per il ruolo di Trump e degli USA, che va ben al di là degli strettissimi rapporti di amicizia, di aiuto, di sostegno militare ad Israele.
E in questi giorni arriva la proposta di pace di Trump, articolata in 20 punti, in accordo con le autocrazie arabe, prima fra tutte l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman Al Saud e poi Emirati, Qatar, che hanno in comune tra loro interessi strategici e risorse economiche.
Adesso prende corpo la mediazione diplomatica: i diplomatici europei sono in contatto con i colleghi americani e degli otto Stati arabi e/o musulmani che hanno contribuito alla stesura della «formula Trump». Vale la pena di ricordarli per sottolineare quanto sia ampio il consenso in quel mondo. Oltre a Qatar e Arabia Saudita, ci sono Egitto, Emirati Arabi, Giordania, Turchia, Indonesia e Pakistan. Sono tutti partner più o meno stretti degli Usa; alcuni di loro, come gli Stati del Golfo, si stavano avvicinando anche a Israele.
Alla testa di questo tavolo diplomatico siede un uomo di grande esperienza e di grande carisma, l’inglese Tony Blair già inviato speciale per il Medio Oriente.
Non che la delegazione Usa inviata oggi a Sharm el-Sheikh ispiri molta fiducia: accanto all’immobiliarista Steve Witkoff, finora collezionista seriale di fallimenti diplomatici, siederà Jared Kushner, genero di Trump, grande amico di Netanyahu, ex consigliere nel primo mandato del suocero alla Casa Bianca e ora immobiliarista con interessi succulenti in Medio Oriente. Le premesse non sono incoraggianti.
Tuttavia, mai come questa volta la speranza è che alla fine Trump e il suo team sgangherato riescano a raggiungere un risultato importante.
Così si ha il paradosso di Gaza (cit. Ezio Mauro): il distruttore dell’ordine mondiale può essere nello stesso tempo il nuovo stabilizzatore del Medio Oriente, dopo due interi anni di battaglia scatenati dal pogrom sanguinoso di Hamas del 7 ottobre 2023 e culminati nella fame usata da Israele come arma di guerra, e infine in un’azione militare di sradicamento di un popolo dalla sua terra.
La svolta che il presidente degli Stati Uniti promuove sarebbe decisiva, anche se il cessate il fuoco producesse soltanto una tregua negoziale e non una pace duratura. L’uomo che ha terremotato le regole della convivenza, le alleanze, il patto occidentale e la sua tavola di valori, diventa protagonista di un progetto di ricostruzione diplomatica, politica e storica dove c’era ormai soltanto odio, terrorismo, terra bruciata e spossessata.
La restituzione degli ostaggi vivi e i corpi di quelli morti con il contemporaneo cessate il fuoco sono prodromici al disarmo e alla resa di Hamas, con l’amnistia per i membri del gruppo terrorista che accettano di vivere in una «coesistenza pacifica», e un canale di sicurezza garantito per quanti scelgono di lasciare Gaza e hanno un Paese pronto ad accoglierli; poi il ritiro graduale e progressivo delle truppe israeliane, con tempi e scadenze indefiniti ma con l’impegno sottoscritto a non «occupare né annettere Gaza»; e la tutela internazionale temporanea su Gaza con forze miste utilizzando un modello simile a quello applicato nei Balcani (Kosovo, Bosnia), con una presenza di Paesi arabi e musulmani e un’amministrazione transitoria guidata da Tony Blair con la supervisione di Trump; per finire col piano di ricostruzione massiccia sostenuto da fondi internazionali.
Si profila così, con un’adesione, anche se soggetta a una negoziazione, annunciata dalla stessa Hamas, una situazione “pacificata” che prevede come senza uno Stato per quel popolo non si costruirà una vera pace se intanto non si taglieranno le radici del terrorismo. Le ragioni dell’esistenza e della sicurezza di Israele stanno insieme con le ragioni di autonomia e libertà dei palestinesi.