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15 Dicembre 2024Come è stato più volte ricordato su questa testata, in occasione della presentazione della fondazione Giulia Cecchettin, il ministro Valditara, il mese scorso, ha rilasciato delle dichiarazioni che hanno fatto discutere. In poche parole, ha negato ciò che aveva detto Elena, la sorella di Giulia: che la violenza nei confronti delle donne è figlia di un patriarcato duro a morire, un patriarcato che si consuma nelle nostre belle famiglie. Ma c’è di più. Il ministro non è riuscito a sottrarsi alla logica della reclame elettorale e, in una confusione grottesca di cause ed effetti di un fenomeno così drammatico, è arrivato a dire che se violenza c’è, questa è il risultato dell’immigrazione clandestina. A parte l’offesa nei confronti di una famiglia che piangeva una figlia uccisa no di certo per mano di un immigrato, e nei confronti di tutte le donne uccise ogni giorno da fidanzati disorientati, mariti fragili e amanti traditi, parole del genere, pronunciate da un ministro dell’istruzione, suonano ambigue e pericolose. E si allontanano dalla chiarezza di principi che invece un’educazione al rispetto, all’affettività e alla sessualità dovrebbe difendere e sviluppare. Insomma, se continuiamo a dire che è tutta colpa degli immigrati, i nostri giovani penseranno che alcune modalità di relazione tipiche della nostra cultura – ancora colpevolmente patriarcale, checché se ne dica – siano da imitare. Se poi equazione violenza – immigrazione viene rivendicata anche dalla premier, si rischia di perdere di vista la vera essenza del problema. Offensivo e pericoloso è, comunque, il fatto che un fenomeno così grave venga strumentalizzato dalla politica, come se attribuirgli una causa che affonda le proprie radici nella nostra cultura di occidentali bianchi, dovesse scaricare il governo dall’assunzione di precise responsabilità. E si continua a fare azione propagandistica. Non vogliamo chiamarlo patriarcato? Chiamiamolo come vogliamo, machismo, maschilismo, paternalismo, atteggiamento diversamente rispettoso nei confronti delle donne. I giovani hanno a che fare con tutto questo. Lo osservano, lo vivono, lo subiscono, perché diffuso è il trattamento impari tra uomo e donna in qualsiasi contesto. E proprio per questo le violenze si consumano quasi sempre in ambito domestico, familiare o amicale.
Un fenomeno sempre più diffuso è la teen dating violence, a causa di relazioni sentimentali premature e dell’enorme portata di informazioni e contenuti cui sono esposti i più piccoli, già in fase prepuberale. Si tratta di una generazione che costruisce relazioni bruciando i tempi, dando per scontato il consenso e vivendo la gelosia come fosse un atto d’amore. Si stabiliscono sin dalla adolescenza, a scapito delle ragazze, delle gerarchie di rapporti, alimentate da stereotipi culturali dei quali le nostre famiglie sono ancora, talvolta inconsapevolmente, intrise. Fino a quando queste gerarchie vengono rispettate, l’equilibrio di coppia è salvo. Le cose cambiano quando le donne si ribellano ai diktat maschili. Cosa che fortunatamente avviene sempre più spesso. Anche se più spesso si verificano episodi di mascolinità tossica e di criticità tra adolescenti, romanticizzate, derubricate in ragazzate, baci rubati, scaramucce tra innamorati.
Ci sono dei pregiudizi duri a morire. Molte ragazze, per esempio, pensano che la mania di controllo e di possesso esercitata dai propri partner sia sintomo di grande amore, e accettano divieti e imposizioni senza ribellarsi. Analogamente, è sempre più diffuso tra i maschi l’idea secondo cui le ragazze spesso dicono di no ma vorrebbero dire di sì. E ancora: molti giovani non considerano violenza il costringere una persona a un atto sessuale, anzi, ritengono che, se vuole, una ragazza può sottrarsi allo stupro. Basta non provocare con vestiti e comportamenti.
In Europa e in diversi paesi del mondo, da diversi anni, nelle scuole, sono obbligatorie delle ore di educazione sessuo-affettiva integrate nei piani di studi e con linee guida nazionali attinenti alle le raccomandazioni emesse dell’Oms. Solo per fare qualche esempio, in Svezia sono state introdotte nel 1957, per non parlare di Finlandia e Danimarca, mentre in Spagna, sono anni, ormai, che nelle scuole si attua in maniera sistematica questo tipo di educazione. Ma, nella cattolicissima Italia, dove un ministro dell’istruzione – con tutto il governo di cui fa parte – si rifiuta di attaccare alle radici il problema della violenza di genere, parlare di sesso e di affettività nella scuola è ancora cosa disdicevole, quasi come se ci fosse il timore che affrontando certe tematiche, queste possano realizzarsi nella vita dei figli. Meglio chiudere gli occhi, fare propaganda e additare altri colpevoli. È meno impegnativo e contribuisce ad accrescere consensi. Insomma, fino a che non ci s’impegna ad attuare un cambio strutturale eradicando dalla nostra cultura stereotipi apparentemente innocui, ma esiziali, continueremo, a organizzare fiaccolate e ad abbandonarci ad applausi scroscianti ai funerali delle vittime, con tanto di palloncini e fiori bianchi. Si tratta di un’emergenza troppo colpevolmente sottovalutata.