440 milioni di liberaldemocratici
21 Giugno 2024CONO DI LUCE La guerra degli uomini, con Sandro Veronesi e Edoardo De Angelis
23 Giugno 2024
“Come sarebbe, scusi?”, mi interroga il commesso guardandomi perplesso.
“Sì – gli rispondo – vorrei un prodotto che tenga lontane le formiche, ma non che le uccida”.
Lui, con pazienza: “Ma tutti i prodotti che abbiamo sono per… eliminare le formiche!”
Gli chiarisco che mi sembra strano, dato che con chi ci è fastidioso di solito ci comportiamo allontanandolo, non uccidendolo (ribadisco il termine crudo).
Il commesso mi guarda, allarga le braccia con un sorriso triste, evidentemente per lui la conversazione non apre affatto a interessanti scambi di punti di vista.
Nel negozio accanto va un po’ meglio: qui due battute si scambiano abbastanza serenamente, dato che il proprietario del negozio annuisce alle mie argomentazioni ma, pur a malincuore, replica che tutti i prodotti di cui dispone prevedono la soppressione dei fastidiosi insetti.
A casa mia, in cucina, a volte le formiche banchettano allegramente su microscopici resti che solo loro vedono e sanno scovare. Le osservo: sono veloci, efficienti, solidali (tornano indietro a soccorrere una compagna azzoppata); sono organizzate, sensibilissime a particelle odorose infinitesimali; vivono in comunità, hanno gerarchie e, soprattutto, a me hanno fatto niente di male.
Sono fastidiose, questo sì: certo non fa piacere, aprendo il vasetto del miele, trovarne dentro qualche decina, come non fa piacere vederle percorrere velocemente dentro e fuori la mela che ti piace tanto, una volta riuscite a infilarsi dentro una piccola macchietta scura della buccia e, da lì, nel frutto succoso e zuccherino.
Infatti, esattamente come noi, le formiche sono molto attratte dalle sostanze zuccherine, e come noi cercano di assaporarle, probabilmente provandone piacere. Non so granché né della loro vita, né della loro organizzazione: le so però esseri vivi, che tendono a nutrirsi per continuare a vivere, proprio come noi; e allora perché ucciderle?
Ho cercato in internet, e ho trovato, “15 metodi naturali e infallibili per tenere lontane le formiche”. Alcuni li ho sperimentati: nessuno è definitivo, e la morale sottintesa è: se non vuoi avere formiche in casa devi tenere la cucina sempre pulita, magari anche con la lente d’ingrandimento, e gli avanzi, o rifiuti che siano, inaccessibili. Poi, qualche formica ci sarà sempre, più o meno a seconda della stagione, la temperatura, le oggettive situazioni di bisogno o meno della comunità che ti vive accanto. Ma, appunto, perché non cercare di stabilire delle regole di convivenza, con la comunità che ti vive accanto, magari in linea con la propria etica? Cercando, con qualche prevedibile caduta di efficienza, di rispettarle e farle rispettare? D’altronde, regole più o meno esplicite e condivise non sono forse alla base di ogni convivenza?
Nel n. 1559 della rivista “Internazionale” (19/25 aprile 2024), un lungo articolo a firma di J.B. MacKinnon, apparso in origine sul canadese Hakai Magazine[1], prende in considerazione il nostro sistema di giudizi e di ripulse riguardanti un’altra specie animale considerata non solo fastidiosa e dannosa, ma anche pericolosa e potenzialmente letale per l’essere umano: i ratti.
L’articolo parte da lontano: elenca dei veri e propri processi che si intentarono contro i crimini commessi dagli animali. Dal processo allestito in Val d’Aosta nell’824 contro le talpe, al maiale impiccato in Francia, al gallo (evidentemente vittima di uno scambio d’identità) bruciato vivo per aver deposto un uovo. Finchè nel 1552 alcuni ratti della Diocesi di Autun, in Francia, vennero incriminati per i danni arrecati al raccolto d’orzo. Ebbero un avvocato difensore, il quale ebbe buon gioco nel contestare la convocazione di “alcuni ratti” al processo: ma quali, esattamente? E quando il tribunale, allora, convocò tutti i ratti (i quali, ovviamente, non si presentarono), l’avvocato (ne conosciamo il nome perché si tratta di un processo famoso, Barthelémy de Chasseneuz) ribatté che i suoi “clienti” erano sparsi su un vasto territorio e avevano bisogno di più tempo per presentarsi. Spostata più volte l’udienza per questo motivo, alla fine il tribunale, spazientito, assolse gli accusati.
Sui ratti i giudizi negativi sono tantissimi, ma uno su di tutti pesa nell’esecrazione collettiva che essi subiscono: quello di essere i vettori del batterio della peste. Questa convinzione, assieme ai danni arrecati alle comunità umane e non umane da essi frequentate, autorizza nei loro confronti le pratiche più crudeli e “disumane”, procurando loro “sofferenze che molti riterrebbero ripugnanti e che probabilmente sarebbero illegali nel caso di qualunque altro animale capace di provare dolore.”[2] (Ebbene sì, anche i ratti provano dolore).
Ma l’accusa intentata ai ratti di essere il vettore del batterio Yersinia pestis – tesi generalmente condivisa e professata – è stata messa in discussione a partire dagli ‘70 del secolo scorso, per arrivare nel 1982 ad essere sconfessata e sostituita, ad opera di uno scienziato norvegese, Lars Walløe, con quella che oggi è conosciuta come “ipotesi dell’ectoparassita umano”. Tradotto in inglese solo nel 1995 e pubblicato su una rivista scientifica, tale studio raggiunse “un pubblico scientifico più ampio (…) provocando molte polemiche”. In due parole, con tale ipotesi “L’idea è che la malattia non fu diffusa in Europa dalle pulci dei ratti, ma dai parassiti umani che approfittarono della nostra scarsa igiene e dalla nostra tendenza a relegare i poveri in abitazioni malsane”.
Da allora si sono susseguiti ulteriori studi che hanno sostenuto la tesi dell’ectoparassita umano, sui quali si dilunga l’articolo in questione; il quale cita anche i numerosi esperimenti scientifici e gli studi che hanno dimostrato quanto i pregiudizi che noi nutriamo sui ratti – li riteniamo aggressivi, sporchi, cattivi, portatori di malattie, ecc. – siano in gran parte infondati, o giustificati dal nostro modo di comportarci nei loro confronti.
Sono state poi sistematicamente osservate le qualità positive che essi posseggono: che siano intelligenti è fuor di dubbio, ma sanno anche apprezzare il buon cibo, rilassarsi, emettere squittii di piacere, essere sensibili alla musica, persino giocare a nascondino con noi. Non sono loro estranei comportamenti di solidarietà coi loro simili in difficoltà: durante un esperimento svoltosi negli Stati Uniti, “si scoprì che i ratti imparavano a smettere di spingere una leva che gli permetteva di avere una ricompensa in mangime, ma allo stesso tempo dava una scarica elettrica a un altro in una gabbia vicina”. E via dicendo, a tal punto che l’autore dell’articolo si spinge ad affermare che il ratto “E’ un animale che potremmo imparare a considerare un degno compagno della società umana”.
A me, tra l’altro, è piaciuta la considerazione che, visti da un ratto, i nostri comportamenti possono sembrargli ben strani: noi lasciamo in giro avanzi e rifiuti in modo che siano facilmente rintracciabili, praticamente invitandolo a pranzo; poi però, se accetta il nostro “invito”, ci arrabbiamo e tentiamo di ucciderlo!
E siccome anche le formiche sono attratte dagli avanzi e dai rifiuti che noi lasciamo in giro, data la nostra reazione di liberarcene uccidendole mi pongo di nuovo la domanda iniziale: perché, se abbiamo i mezzi per tenerle lontane, con un po’ di applicazione?
Valga infine, per ratti, formiche e quanti altri animali ci vivono accanto, la conclusione dell’articolo, che potrebbe essere il punto di partenza per una specie di manifesto per la convivenza civile tra specie diverse: “le creature hanno diritto ad esistere secondo la loro natura, anche se è nella loro natura creare problemi agli esseri umani”.
[1]https://www.internazionale.it/magazine/j-b-mackinnon/2024/04/18/dalla-parte-dei-ratti
[2]Gli incisi tra virgolette sono citazioni dell’articolo di cui sopra.