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Non sembri questa un’affermazione riguardante i soli credenti: non è solo la religione ad essersi occupata dell’immortalità dell’anima. Già nell’“illuminismo” greco del V secolo a.C. si compie un primo passo verso la distruzione di quel pensiero mitico che, come la religione dell’antico Egitto, celebrava con simboli e rituali il “presentimento” dell’immortalità dell’esistenza umana. E sarà Platone, a tradurre tale “presentimento” nelle categorie dell’argomentazione razionale proprie della filosofia, pur essendo ancora presente in lui – per via della “religione” di Pitagora e la teoria della metempsicosi – la nozione che il possesso dell’anima “non era ancora prerogativa dei soli esseri umani, ma anche degli animali…”.
Quando però la dottrina platonica incrocerà la teologia cristiana, “erede della visione antropocentrica dell’uomo e del mondo trasmessa dalla Bibbia”, l’immortalità verrà attribuita tout court solo all’uomo, perché gli animali sono “privi di ragione” e dunque non ne sono degni. Da qui in poi, della vita umana non si parlerà più in termini di sola “diversità”, bensì di supremazia e di “preziosità”; concezioni gravide di conseguenze, in almeno tre ambiti dell’odierno dibattito sui problemi della natura e dell’ambiente: la sovrappopolazione umana del pianeta; lo sfruttamento degli animali; la negazione dell’origine evolutiva dell’uomo.
Drewermann, sul primo ambito è chiaro: “Se vogliamo che anche una minuscola parte delle specie animali e vegetali (…) abbia almeno la chance di sopravvivere al fianco dell’uomo, la specie umana dovrà smettere per la prima volta nella sua storia di obbedire incondizionatamente al comandamento ricevuto da Dio in Paradiso: “Siate fecondi e moltiplicatevi…(Genesi 1, 28)”. Ma tale richiesta per la Chiesa finora è risultata decisamente inaccettabile perché, se alla vita umana soltanto è attribuita l’immortalità, non importa quanti uomini e donne nasceranno e moriranno, magari di stenti, perché: “...poiché tutti questi uomini potranno condividere in cielo la sorte del povero Lazzaro, sarà pur sempre meglio per loro essere esistiti che non essere nati affatto.”
E che dire del secondo ambito, lo sfruttamento degli animali? Avere smarrito la nozione di ciò che ci unisce a loro e al vivente (ma anche al “non vivente”), in un tutto unico che ci comprende e ci assomiglia, fa degli animali delle “cose” di cui servirci a nostro uso e consumo: la loro esistenza, sub specie aeternitatis, a differenza della nostra, non vale nulla.
A partire dal XIX secolo, l’industrializzazione del mondo moderno ha via via trasferito all’agricoltura, e all’allevamento, i metodi che hanno consentito al genere umano di affrancarsi dall’approvvigionamento di merci e materie prime: meccanizzata l’agricoltura, meccanizzato l’allevamento, gli animali sono diventati letteralmente “carne da macello”. Le cifre – se vogliamo – le conosciamo, e sono spaventose: milioni e milioni di animali in Europa, miliardi nel mondo, vengono sistematicamente privati della libertà, della salute e della dignità, in nome di un modello alimentare insostenibile per l’etica, insostenibile per l’ambiente, insostenibile per la nostra stessa salute.
Eppure a tutto questo noi, l’essere “migliore” del creato, non ci ribelliamo, anzi; certo, hanno la loro responsabilità le leggi del mercato, le esigenze della concorrenza, le aziende agricole in crisi…; ma, ribadisce, Drewermann, ciò che ci rende indifferenti alle atrocità che ogni giorno infliggiamo agli animali, è di tipo più profondo e, in certo modo, inconsapevole: “… risiede nel principio della fede cristiana per il quale soltanto l’uomo gode di una vita immortale, mentre gli animali altro non sono che materiale di consumo a uso dell’uomo, signore della creazione nei secoli dei secoli”. E allora, se questa è l’idea, non può sorprendere il fatto che gli animali sono ancora – per quanto, meno che in passato – massicciamente utilizzati e sacrificati a milioni ogni anno in esperimenti “atroci quanto insensati”: lasciati soli nella paura e nella disperazione, vengono loro somministrate iniezioni che sviluppano tumori, indotte deformazioni, impiantati pezzi di metallo e via via citando, in una galleria di orrori senza fine.
Rimane il terzo ambito, la problematica del rapporto uomo-ambiente, verso la quale i teologi odierni (“ortodossi”) manifestano la loro posizione “estranea e ostile” ad una concezione non antropocentrica della natura, ancora incapaci di accettare la visione evolutiva dell’uomo sostenuta dalla scienza moderna. Per loro, secondo Drewermann, “… ammettere una volta per tutte che l’uomo magari non sia altro che una parte dell’evoluzione del cosmo farebbe temere prima di tutto per la sua “libertà” e per l’immortalità della sua anima”. Invece, dovremmo riconoscere “...che in noi uomini si manifesta soltanto con maggiore evidenza quello “spirito” che è oggettivamente realizzato dovunque nel mondo.” E dunque, eccoci al punto: “In altre parole, se gli uomini sono immortali, perché non dovrebbero esserlo anche gli animali?”.
Per rispondere, Drewermann procede citando alcuni passaggi del pensiero occidentale, esemplari dell’idea dell’immortalità dell’anima riservata solo all’uomo: Platone, la filosofia aristotelica, la filosofia cristiana, Tommaso d’Aquino; ai quali però può contrapporre le scoperte di Charles Darwin, le teorie evolutive che ci fanno derivare da precedenti ominidi senza soluzione di continuità, le performances cognitive e culturali dei primati e di tanti altri animali, le ricerche di Konrad Lorenz, la Dottrina indiana degli avatara di Vishnu, i recenti risultati della psicoanalisi e dell’etologia , evidenziando come tutte queste concezioni portino inevitabilmente all’idea “… che 3 sia un unico flusso vitale quello che ha reso possibile e che continua a svilupparci come esseri umani”. D’altronde, per Gregory Bateson lo spirito è una caratteristica strutturale di tutti i sistemi complessi.
Sarebbe necessario rinnovare i percorsi di studio dei teologi, avendo come riferimento basilare sia l’atteggiamento verso gli animali, sia quello verso le religioni mitiche. Perché è nelle religioni mitiche, come in quella dell’antico Egitto – cui la teologia cristiana ha ampiamente attinto per quanto riguarda l’immortalità dell’anima e la resurrezione – che il posto degli animali era chiaramente accanto agli uomini e agli dèi. Drewermann ci racconta come per gli Egizi, convinti dell’unità originaria di tutte le forme di vita, non fosse immaginabile che il canto delle scimmie all’alba sulle colline orientali del Cairo, un vero e proprio “saluto al sole”, “inno universale di gratitudine alla vita”, uguale per gli uomini e per gli animali, si potesse interrompere con la morte.
E se non è possibile dimostrare che anche gli animali hanno un’anima, e dunque il diritto ad un rispetto ben diverso dall’attuale, sarà comunque da ascrivere anche agli animali la capacità di amare e proteggere la prole, cioè l’andare oltre il proprio interesse e il proprio essere immediato: ciò che configura noi e loro come degni di aspirare a un oltre la morte e la caducità.
D’altra parte, Immanuel Kant, nella sua Critica della Ragion pratica, postula la fede nell’immortalità dell’anima come condizione necessaria perché la legge morale abbia senso; in modo non molto diverso, gli antichi Egizi postulavano l’immortalità anche per gli animali, in modo che “…come detentori di propri diritti esortassero gli uomini alla giustizia e all’indulgenza davanti alla bilancia del Maat.” Gli animali, infatti, dopo la morte hanno un compito fondamentale, che è quello di intercedere presso gli dei a favore degli uomini (come narra anche un antico mito degli Indiani d’America) e tale compito non potrebbero evidentemente assolvere se la loro anima non fosse immortale. Nel tribunale egizio dell’aldilà, quando il cuore del morto viene soppesato sulla bilancia della verità per decidere del suo destino, egli deve poter pronunciare anche le parole: “Non ho tolto di bocca al bestiame né foraggio né pastura”, e poi “non ho maltrattato nessun animale”.
E in epoche più vicine a noi? Come esiti di sopravvivenze della vicinanza tra uomini e animali, Drewermann ci propone alcuni estratti da Paradiso degli animali dello scrittore basco Francis Jammes (1868-1938), e da Ode delle bestioline sofferenti dell’austriaco Franz Werfel (1890-1945). Si tratta di due scrittori che hanno saputo parlare degli animali dando voce “alla loro incessante e crescente sofferenza”, riuscendo ad accoglierne dentro di sé il dolore di questi “fratelli più piccoli” ma anche a restituirlo con parole che ci avvolgono nella nostalgia di un Paradise lost in cui uomini e animali vivevano vicini e si rispettavano. O, nel caso di Werfel, suscitando in noi non solo la compassione, ma anche il grido impotente per una creazione ridotta a “immondezzaio di dolori dispersi”.
Le ultime pagine di Sull’immortalità degli animali si caricano di un afflato mistico: concetti come vita, tempo, eternità, eterno ritorno, si frastagliano; e poi, noi stessi: cosa siamo, una volta perso il legame con ciò che ci unisce al tutto? Ma tutto è trasformazione incessante, e quindi “Nulla perisce davvero nell’ora della morte”: quindi neanche noi, neanche gli animali, neanche il più piccolo granello di sabbia, niente. Tanto è vero che secondo gli antichi Aztechi “Quando moriamo non moriamo davvero; giacché viviamo, risorgeremo; viviamo ancora, veniamo risvegliati. Questo ci rende felici”. E, come si sarebbe detto nell’Antico Egitto, “ Nel momento della nostra morte discendiamo insieme nella barca del sole”.
In conclusione, è questo un libretto che non fa sconti alla teologia cristiana tradizionale, ma nemmeno al nostro compiaciuto senso di “padroni del mondo” che del creato abbiamo saputo farci dominatori, ma non custodi. E dunque, quali speranze per un profondo cambiamento della miseranda condizione in cui abbiamo ridotto gli animali? Quali speranze, verrebbe da dire, se ancor oggi intere comunità umane sono discriminate in base alla provenienza, alle condizioni economiche o sociali, al genere, alle scelte sessuali, all’aspetto, e via dicendo? Eppure, non alzare la voce in nome degli animali, cioè “di chi non ha voce” , ci metterebbe di fatto nella condizione di abdicare alla nostra stessa idea di umanità, che ci costituisce come esseri capaci un’etica che, appunto “… preveda il dovuto rispetto per tutte le creature viventi.” . Di questo, alla fine, si tratta.
1 Tit. or. Über die Unsterblichkeit der Tiere, 1990, Walter Verlag editore.Trad. di Giovanni Russo,
Castelvecchi, Lit Edizioni, Roma, 2013, pp. 58, prefazione di Luise Rinser. Sono tratti da qui -tranne diversa
indicazione – tutti i passaggi in corsivo e virgolettati.
2 Nato a Bergkamen, Germania, 1940.
3 Ultimamente anche le neuroscienze stanno apportando importanti contributi allo smantellamento delle
prerogative esclusive dell’uomo in quanto a intelligenza, empatia, emozioni da condividere col mondo
animale.