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31 Gennaio 2021“Credo che scriviamo perché non capiamo il mondo. Credo che la letteratura possa cogliere qualsiasi cosa e che abbia infinite possibilità, se utilizza tutte le risorse che ciascuno si porta dentro. E credo che la poesia sia l’espressione di sé più intima e profonda. Nasciamo come poesia, poi gli anni ci trasformano in prosa. Sogno di scrivere romanzi che restituiscano il lettore alla poesia che è stato quando è venuto al mondo.
E allora potrà fluttuare tra gli universi”.
Jòn Kalman Stefànsson, quando commenta così la sua attitudine alla scrittura, in un articolo a proposito del suo ultimo libro uscito, “Crepitio di stelle”, Iperborea 2020, ci introduce idealmente, ancora una volta, ad una atmosfera singolare, dove, come negli altri suoi libri editi in Italia, ci accompagna tra fremiti poetici e descrizioni di vicende che solo una terra come l’Islanda può accogliere e comprendere.
Questo autore infatti, candidato quattro volte al Premio Letterario del Consiglio Nordico, e nel 2017 candidato al Premio Nobel per la Letteratura, è anche poeta, e la sua poesia la traduce, anche in questo suo ultimo libro, in una serie di folgoranti similitudini, apparentemente a volte persino incongrue,
che creano un collage di ricordi dell’infanzia e della vita dei bisnonni del protagonista quarantenne in cerca delle sue radici.
Il crepitio di stelle del titolo accompagna molto spesso le descrizioni e i fatti raccontati, il cielo buio ed illuminato da luna e stelle è un leitmotiv che solo nel Paese più a Nord d’Europa, sfiorato dal Polo Nord, può procedere silenzioso guardiano di tanti fatti ed emozioni e pensieri.
A differenza di un altro suo bellissimo libro, “Luce d’estate. Ed è subito notte”, tutto ambientato in un paesino sperduto in mezzo ai fiordi, qui parte delle vicende evocate in fulminanti brevissimi paragrafi, si svolge in una periferia della capitale fatta di anonimi palazzi Anni Cinquanta. Richiami dai ballatoi tra bambini, un cortile qualunque per giocare, il senso di stare comunque in un posto abitato anche da altre persone.
Perché la solitudine è una condizione nota agli abitanti di quest’isola, a volte cercata, ma molto più spesso vissuta come normalità, all’interno di sperduti paesetti o addirittura singole fattorie circondate dal nulla. Le pagine che nel libro comunque ci riportano a tali suggestioni, sono quelle dedicate all’avventura dei bisnonni che decidono (anzi è solo l’eccentrico bisnonno a farlo) di trasferirsi in una fattoria sperduta di fronte ad uno dei fiordi occidentali. Sono pagine fortemente evocative, dove emerge in forma lancinante quel tema della solitudine a cui si accennava poco prima. C’è la forza della solitudine nel sogno della vita agricola fatta con le proprie mani nella figura del bisnonno, pronto anche a questa avventura, di fronte alla quale però non reggerà nel tempo. Quei momenti in cui si siede a guardare il mare, in silenzio, per raccogliere dentro di sé la pace di quei luoghi lontani da tutto, sono un segno di una reale dimensione ancora oggi possibile per chi viaggia in quei luoghi. Ma c’è anche la solitudine forzata della figlia grande, che si dispera per la mancanza di qualunque contatto umano, salvi i marinai che portano le provviste con la barca ogni tre settimane.
Quale è dunque la poesia che cattura queste pagine così frammentate, che chiedono al lettore un cuore grande, un distacco dalla propria visione mediterranea del mondo, che cos’è che resta di questi sprazzi di passato che volutamente non vengono coniugati in una narrazione fluida?
E’ un incantamento arcano, è l’intuizione di un altrove ancora europeo ma infinitamente lontano dai suoni,dagli odori, dai colori, e soprattutto dalla luce che noi conosciamo. Sono sempre in fondo lucenti stelle invernali quelle che appaiono nei cieli descritti nel libro, sono visioni che accompagnano le riflessioni sulla vita e sulla morte, attraverso le vite silenziose dei parenti del narratore.
E il tema della vita e della morte passa anch’esso silenzioso ma forte dentro queste pagine.
“Il tempo passa, noi viviamo, e moriamo. Ma la vita cos’è? La vita è Jonas che si addormenta al profondo respiro di Pogrimur, è proprio così, eppure non è tutto. E che spazio c’è tra la vita e la morte, se c’è n’è uno, e allora come si chiama? Lo si misura in chilometri o in pensieri, e c’è chi riesce a transitare dall’una all’altra – avanti e poi indietro?” (da “Luce d’estate. Ed è subito notte”).
L’autore ci fa camminare assieme a lui, in queste pagine, avanti e indietro nel tempo, ci fa parlare con il suo io bambino assieme ai soldatini che prendono vita nella sua camera da letto, distante dai silenzi del padre muratore e della matrigna, ci fa entrare dopo trent’anni nelle stesse stanze di un tempo abitate ora da altre persone, ci fa conoscere vecchissima chi abbiamo conosciuto ragazza, ci fa intuire passioni d’amore consumate giovanissime in una soffitta scomoda, ci riporta, con struggimento e coraggio narrativo, in due mondi ad un tempo divisi e unici: quello della sua vita con la forza dei ricordi, e quello dell’isola che la contiene, e che sola può dare ragione alle sue parole, alle sue descrizioni, ai suoi personaggi. Che assomigliano, al maschile, anche fisicamente all’autore, incontrato a Venezia da chi scrive nel 2019 ad “Incontri di Civiltà”: alti, ossuti, capelli rossi, occhi verdi penetranti. Silenziosi gentili giganti del nord.
Che, come lui, raccontano in poesia, così : “Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia; non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo. Nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro”.
CREPITIO DI STELLE, JON KALMAN STEFANSSON, IPERBOREA 2020