
LA CITTA’ FUTURA Venezia futura. Ipotesi per un progetto di Città
12 Luglio 2024
Gaza non esiste più.
14 Luglio 2024L’opera “La condanna” di Walter Veltroni (ed. Rizzoli) è un finto romanzo: in realtà è una docufiction che racconta un evento efferato realmente avvenuto nel settembre del 1944 nella Roma appena liberata e ancora avvolta nell’atmosfera avvelenata e gonfia d’odio di quel momento storico (l’eccidio delle Fosse Ardeatine era avvenuto solo 6 mesi prima). L’autore sceglie di farlo in forma di romanzo, facendo ricostruire la vicenda da un protagonista di fantasia, un giovane cronista entusiasta, precario in un giornale altrettanto precario, cui il capo servizio della cultura affida un servizio che ricostruisca appunto un lontano fatto di cronaca, sconosciuto (credo) a quasi tutti. La scelta non è invero felicissima, i personaggi di fantasia sono irrimediabilmente posticci essendo evidente che tutto l’interesse dell’opera è sulla vicenda reale ricostruita ma poco male, l’interesse dell’opera non è sulla qualità letteraria bensì appunto sul valore documentaristico della ricostruzione del fatto evocato (e sull’implicito omaggio a un certo giornalismo di inchiesta “vecchio stile”, fatto di faticose ricerche di archivio, di sudore, di vecchie fotografie scolorite e non di comode ricerche su Google).
Veltroni propone il racconto (scomodo) di una colossale ingiustizia perpetrata dagli italiani brava gente. Lo ha spiegato bene lo stesso autore, in una presentazione del libro presso lo Spazio Eventi della sempre meritoria Libreria Toletta, è stato guidato dall’interesse per storie e personaggi dimenticati, vittime delle circostanze e sostanzialmente incolpevoli. In breve, la vicenda: si celebra al Palazzo di Giustizia il processo al questore di Roma, Pietro Caruso, un collaborazionista che si è macchiato di numerose infamie tra cui l’aver contribuito alla redazione delle famigerate liste di coloro che saranno trucidati alle Fosse Ardeatine. La gente affolla il Palazzo, e tra loro molti parenti delle vittime dell’eccidio, accorsi in massa per vedere condannato il boia dei loro cari. In aula, tra i testimoni dell’accusa c’è un tale Donato Carretta, già direttore del carcere di Regina Coeli. Carretta, lo ricostruisce Veltroni molto accuratamente, certamente per il ruolo che aveva era contiguo al regime (non avrebbe potuto essere altrimenti) ma nessun dato di archivio lo caratterizza come un fascista a tutto tondo, non vi sono macchie particolari nel suo passato (anzi, pare che grazie a lui, partigiani illustri come Saragat e Pertini siano riusciti a scampare alla prigionia). Ed è lì, ribadiamo, come testimone dell’accusa. Eppure, una squilibrata lo addita alla folla come il colpevole. È come accendere un cerino in un ambiente saturo di gas: la folla impazzisce, si impossessa del malcapitato e dopo averlo malmenato in modo orribile, lo getta nel Tevere dove verrà annegato da cittadini che si trovavano sul fiume a godersi la giornata ancora estiva. Una folla incontenibile e irragionevole, di ferocia inaudita che travolge i pochissimi (un carabiniere e un tramviere) che cercano di salvare il poveretto. Il cui corpo martoriato verrà orribilmente esposto a testa in giù, seminudo e irriconoscibile al pubblico disprezzo, proprio sul muro del Palazzo di Giustizia.
Veltroni non ci risparmia nulla, nessun particolare, ricorda che esistono dei filmati (pare addirittura di Luchino Visconti) che documentano l’assalto nel palazzo ma non, misteriosamente (una autocensura?), le drammatiche sequenze in esterno. Non tace della fredda ritrosia con cui l’Unità derubrica la notizia, delle pene risibili (e presto amnistiate) comminate ai pochi soggetti individuati.. insomma la cappa di silenzio e rimozione dalla cronaca di questo fatto (che infatti è pressoché sconosciuto a tutti).
Insomma, un linciaggio sulla base della vox populi. Una manifestazione tribale, feroce, inaudita. Che sa di terre e di epoche senza legge e senza morale, una crudele cerimonia che richiama alla mente il Far West, il Ku Klux Klan, il Terrore della Rivoluzione Francese, le stragi della Guerra dei Trent’anni, i pogrom contro gli ebrei. Insomma, tutta un’antologia di nequizie di cui la storia è impregnata ma che, nell’immaginario collettivo, mai e poi mai assoceremmo al mito confortante (certo un po’ autoassolutorio ma sostanzialmente fondato) degli italiani brava gente.
Resta sospesa una domanda cui lo stesso autore, da me interrogato in merito, non sa dare risposta. Quanto avvenuto si spiega – certo in nessun caso si “giustifica” ma almeno, appunto si “spiega” – con la particolarissima situazione della Roma appena liberata dal nazifascismo e dal carico di odio, di paura, di diffidenza, di voglia di vendetta che si respirava? È in altre parole il frutto avvelenato di un tragico e fatale incrocio di circostanze irripetibili? Oppure, ancora oggi, in determinate condizioni di esacerbazione, di furore, di fronte a torti reali o presunti, una folla di italiani brava gente potrebbero perdere il senno? Magari, si spera, non arrivare a un linciaggio ma comunque commettere crimini efferati?
Confesso che ho un po’ di paura a darmi una risposta.