RIGENERAZIONE URBANA Una nuova qualificante rubrica per LG
14 Luglio 2022POSTA IN REDAZIONE Riflessioni sull’art.37-bis relativo alle locazioni turistiche del “decreto aiuti”
15 Luglio 2022Rosate è un piccolo borgo alle porte di Milano, in piena campagna (Parco agricolo sud Milano), nel territorio dell’abbiatense, ma già in odore di Pavia. Attualmente conta quasi 6mila anime (ancora negli anni Settanta ne contava meno della metà, figurarsi negli anni Quaranta, di cui ora diremo!). Molta della gente che vi abita, lavora altrove, specialmente a Milano. In gran parte costoro sono solo “rosatesi”, cioè persone che magari abitano in paese da quarant’anni, però non sono “rosatine”, come dicono gli autoctoni, che definiscono così se stessi (rosatini) in quanto nati e cresciuti a Rosate. Storie di campanile, che però oggi contano meno di nulla.
Milano si raggiunge infatti in un fiat, per chi è automunito o motorizzato. E poi si può usufruire di un comodo servizio di collegamento tramite pullman. Insomma, al giorno d’oggi abitare a Rosate è quasi come abitare a Milano, almeno nel senso che la metropoli è a un tiro di schioppo dal paese. E alura? Dirà il lettore lombardo (o anche no). Mument, rispondo io. Parlare di Rosate è in un certo senso come parlare di uno dei tanti numerosissimi piccoli centri di cui l’Italia pullula, visto che più abitata delle città è, appunto, la provincia. Ma grandi differenze non ce ne sono ormai, in un’epoca di omologazione totale come la nostra.
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Se parlo però col compagno (e illustre concittadino) Umberto Rossi, noto come Berto, rosatino doc, classe 1941; e se Berto mi racconta di com’era Rosate quando era bambino lui, ebbene, allora il discorso cambia. Nel ’45 Berto era un fijulet e nel primissimo dopoguerra, cioè nella seconda metà degli anni Quaranta, era già un bambino capace d’intendere e di volere. E di ricordare. E se comincia a ricordare, Berto mi parla di un paesino lontano anni luce dalla metropoli e dalla modernità. Un altro mondo. Un microcosmo contadino, che sembrava ancora un paese dell’Ottocento.
L’insediamento si riduceva a poche vie principali che non starò ad elencare. Di queste strade solo una era pavimentata, quella d’ingresso al paese (venendo da Milano): qui c’era l’acciottolato e due strisce parallele in pietra, per facilitare il transito dei carri. Tutte le altre strade erano in terra battuta. Il nonno di Berto (suo padre era muratore, mentre la madre andava a lavorare nei campi) aveva l’incarico di passare per le strade con un carro trainato dal cavallo e munito di una sorta di botte (non so scrivere il nome in dialetto), dai cui lati sprizzava l’acqua per bagnare le strade e impedire che si alzasse troppa polvere. Come nel vecchio far west.
Milano era un luogo remoto. Per raggiungerlo il sistema migliore (cioè il più economico) era, per i più, quello di recarsi in bicicletta a Gaggiano, sul Naviglio Grande, dove si fermava un tram (non un treno, si badi, come adesso) proveniente da Abbiategrasso che, costeggiando tutto il naviglio, aveva come capolinea la darsena di Porta ticinese (a Milano, appunto). L’autocorriera c’era, ma le corse erano poche e troppo costose. E chi è poi che andava a Milano? Per lo più chi faceva il muratore – e qui erano tanti, perché nella metropoli ce n’era da fare: erano gli anni, dopo la guerra e i bombardamenti, della ricostruzione!
Altrimenti la gente di Rosate abitava e viveva e lavorava in paese e nei dintorni. A parte gli impiegati pubblici, i maestri e i negozianti, la gran parte lavorava nei campi. Il circondario era terra di granturco, in parte di frumento, molto anche di risaie (ma non moltissimo come ora). Nei campi non si usavano i diserbanti e quindi si catturavano in quantità le rane, che si mangiavano per lo più fritte o in forma di frittata, e costituivano un’integrazione fondamentale dell’alimentazione locale.
Ma, dice Berto, pur nella miseria dilagante, tutto sommato in un paesino così almeno si mangiava meglio che nella metropoli. C’erano nei canali i pesci provenienti dal Ticino, che si pescavano col retino. (Di rane oggi non ce n’è più e i pesci di canale meglio pescarli solo per diporto e poi ributtarli in acqua). C’erano poi le erbe selvatiche, come il cicorino spontaneo che si raccoglieva nei campi. Inoltre, in molte famiglie si allevavano, in orti e cortili di paese, galline (con relativa disponibilità anche di uova), oche e conigli. Insomma, in fatto di alimentazione, ad onta della grande miseria diffusa, gli abitanti del luogo se la cavavano mica male. La domenica, a pranzo, gallina o coniglio.
I benestanti erano pochi: proprietari di risaie o di cascine, dèdite queste ultime all’ allevamento di mucche da latte e moltissimo, allora, anche, di cavalli da traino (traino di aratri, traino di carri…non c’erano di trattori a quel tempo). La gente si spostava in bicicletta (tutto il territorio è pianeggiante) o per lo più a piedi. A piedi venivano dalle cascine, la domenica, per la messa, mentre i signori arrivavano in calesse (alla metà degli anni Quaranta, che somigliavano ancora all’Ottocento!). Le auto erano solo una rarità e di rado facevano la loro comparsa in paese.
Dunque gli uomini lavoravano assai come muratori, oppure nei campi. Nei campi anche le donne, a mondare le risaie o a zappare nei terreni di mais e di grano. E il tempo libero, Berto? Di tempo libero non è che ce ne fosse molto. Le donne lo trascorrevano per lo più nella corte, dove trascinavano il loro cadreghino (lo sgabello) e s’intrattenevano, mentre svolgevano lavori domestici, a ciacolare con le altre comari. Gli uomini invece li trovavi per lo più in osteria, a giocare a carte, o in qualche raro posto a giocare con le bocce.
E i bambini come si divertivano? Giocattoli niente: solo giochi a costo zero, i soliti: nascondino, ruba-bandiera, la campana…Oppure si giocava alla lippa: un pezzo di legno dalle estremità affusolate che veniva battuto con un bastone perché balzasse in aria e poi al volo veniva col medesimo bastone ribattuto perché andasse più lontano che si poteva. O ancora con l’ausilio di un bastone si faceva correre un cerchio di legno o di metallo (ma si trattava sempre oggetti di fortuna, altro che hula hoop, ancora di là da venire).
I ragazzini andavano anch’essi per rane nei fossi e nelle risaie, e, strada facendo, rubavano frutta nei frutteti. Non so se questo fosse un gioco, ma certo era un divertimento. Divertente era poi, nella bella stagione, andare in mutande (mica in slip da mare) a fare il bagno nel canale (qui in paese, la Bergonza) luogo vietato (inutilmente) dalle mamme, che cercavano di terrorizzare a luglio i loro figli ammonendoli che Sant’anna pretendeva ogni anno il sacrificio di 7 bambini annegati. Come in un antico mito pagano.
Molti abitanti vivevano fuori paese, nelle cascine: tante famiglie in ciascuna cascina. Ogni anno, a scadenza (l’11 di novembre), il padrone decideva chi doveva andarsene. E così vedevi carri tirati da un cavallo e carichi di povere masserizie: era gente che si trasferiva in qualche altra cascina. I bambini delle cascine, che raggiungevano la scuola di paese a piedi, con gli stivali, cambiavano continuamente paese, e quindi scuola, e quindi erano di solito i più somari, poveretti.
Il racconto frammentario di Berto è come un fiume in piena. Di ricordi ce ne sono tanti, e non basterebbe lo spazio di questa rivista a contenerli tutti. Ma sono tutti ricordi di un uomo ancora pimpante, quantunque ottantenne, che mi parla degli anni Quaranta, quando lui era bambino, quando la guerra era appena finita, quando Rosate somigliava ancora a un borgo dell’Ottocento.
Ci siamo incrociati, io e Berto, stamattina in bici, nella campagna di Morimondo. Berto ha voluto offrirmi un caffè e poi è partito il racconto. Come lo prendi il caffè, mi chiede. Normale. Io no, dice lui: lo prende senza zucchero a causa di quella che egli chiama quasi affettuosamente la sua diabete. Però poi il caffè lo corregge con la sambuca, che lo riscalda dal freddo del mattino, dice. Ahi, Berto! E mi mostra anche, sotto la camicia, un foglio di giornale per proteggersi dal freddo. Come faceva un tempo, ormai lontano, chi andava in bici col freddo. Un tempo del quale (a torto) sembra non importi più nulla a nessuno.