FUTURO POST ELEZIONI Un uomo solo al comando
3 Novembre 2022GOVERNO MELONI: PRAGMATISMO NEL VALUTARLO VOLTA A VOLTA SENZA SCONTI E PREGIUDIZI
8 Novembre 2022Ah, gli ospedali in Italia! Sono un argomento ghiotto per un moralista, cioè per un curioso dei fatti di costume.
Dunque, parliamo un po’ dei pronto soccorso ospedalieri. Se hai la sventura di star male nel fine settimana, dove vai? Forse dal medico di “famiglia” (altresì detto niente di meno che medico di “fiducia”)? Macché: di sabato o di domenica non c’è medico di base reperibile (posto che sia veramente reperibile negli altri giorni). E allora che fai, se stai parecchio male di sabato o di domenica (ma non a tal punto male da dover chiamare la campacavallo guardia medica o un’ambulanza) e hai urgenza di farti visitare? Vai al pronto soccorso.
Ed eccoci al pronto soccorso di un importante ospedale milanese. In primis fai una considerevole fila per l’accettazione: in piedi, perché in questo P.S. non è stato adottato il sistema della prenotazione col ticket (quando cioè prendi il pizzino e in sala d’attesa attendi, ma seduto, che sul display compaia il tuo numero). Macché: qui, in piedi. E restare a lungo in piedi se non stai troppo bene… Ma lasciamo andare: alla fine vieni “accettato”.
Alla fine? Altro che fine, questo è solo il principio. Perché, se non sei proprio in fin di vita o in pericolo serio e imminente, non vieni certo accettato come “codice rosso” (emergenza) o come “codice giallo” (urgenza assoluta) bensì come “codice verde” (urgenza differibile, con un bell’ossìmoro), che sarebbe il penultimo gradino prima del “codice bianco” (nessuna urgenza). Come è giusto e sacrosanto che sia, beninteso: è ovvio che coloro che stanno veramente male o peggio sono in pericolo imminente di vita debbano avere la precedenza assoluta.
E come tale, cioè come “codice verde”, finisci in coda: in coda ai pazienti rossi e gialli. Sennonché, quello che passa nell’attesa è un tempo biblico: un’ora, due ore, tre, quattro, non si sa… Quello che invece non funziona è che pare non sia stato affatto previsto che nel fine settimana (quando, in assenza dei medici di base, i pazienti a frotte si riversano, peggio del solito, nei pronto soccorso) debba almeno raddoppiare il numero del personale medico e paramedico. Non è stato previsto oppure non possibile per carenza di medici (così pare).
Insomma, tu sei lì, seduto (se c’è posto) ad attendere sine die che ti chiamino per la visita e gli esami del caso. Eppure, anche se sei un “codice verde” non è che tu stia proprio bene… Ma lasciamo andare. Le ore passano. Puoi magari avere sete o fame, però mica c’è in quella parte del nosocomio una qualche specie di bar. No. Grasso che cola se trovi un distributore automatico di bevande, caffè e affini.
Ci vogliono le monetine, per caso? No no, dice: c’è anche la fessura per le banconote. Solo che non funziona, segnalo all’addetto dell’accettazione. Eh no, mi risponde quello: la fessura delle banconote serve solo per ricaricare la chiavetta. Ah, capisco: e la chiavetta dove si prende? Eh, mica la trova qui, ora. Ma allora, azzardo io, ci sarà un dispositivo cambiamonete. Be’, quello c’era, mi risponde l’altro, poi qualcuno l’ha scassinato e così non l’hanno rimesso più. (Problema brillantemente risolto!).
Dunque niente acqua, niente caffè, niente crackers, anche se sono qui digiuno da stamattina e l’inedia comincia a mordere. Insomma, i pazienti debbono essere davvero molto pazienti, perché sono trattati proprio come bestiame o come cose. Ma a un certo punto si apre finalmente la seconda fase dei trattamenti, anzi, dei maltrattamenti: le visite e gli esami clinici. E qui comincia il capitolo del rapporto con medici e paramedici.
L’elenco degli sgarbi, della rozzezza e del menefreghismo dei sanitari (salvo doverose eccezioni) sarebbe assai lungo. E si tratta di comportamenti particolarmente odiosi perché esercitati nei confronti di chi, per definizione (in quanto malato) è in una condizione di fragilità e di minorità. E che magari non osa neanche obiettare o ribattere mai alcunché, fantasticando che poi i sanitari possano vendicarsi, se litighi con loro. Tutto sommato hanno la tua vita nelle loro mani…
Ora, io capisco bene a quale pressione siano sottoposti questi lavoratori della sanità, con la folla dei pazienti che devono fronteggiare. Capisco anche che possano tendere ad essere un po’ sbrigativi, ammettiamolo. Ma tra questo e l’arroganza, la scortesia senza freni, financo l’aggressività, ce ne passa, se permettete. Perché le persone perbene si comportano come si deve anche in situazioni di qualche difficoltà. Quelle che sono rozze e incivili, viceversa, è un attimo che approfittino della loro posizione “di forza” nei confronti del paziente inerme, spaurito, debole, preoccupato e… facile da maltrattare.
Io invece no, stavolta mi dice bene (o male, non saprei). Si vede che ho voglia di litigare. Sicché riesco a fare reprimende a un medico e un paio d’infermieri. Ma qui mi limiterò a riferire solo la ciliegina sulla torta, cioè l’epilogo della mia degenza interminabile nel pronto soccorso.
Dunque, visita conclusiva e finale con lo specialista: diagnosi ormai fatta e comunicatami a voce, terapia già definita e virtualmente prescritta. Perciò, fine, tutto fatto: si tratta ora solo di scrivere materialmente referto e dimissioni (carte che ormai, si sa, sono da compilare al computer e da stampare in un fiat, con un clic).
“Aspetti fuori, per favore”, mi dice con degnazione lo spocchioso sanitario. Senz’altro. Aspetto. Passa mezzora, un’ora, un’ora e mezzo. Mi spazientisco un po’, capirete. Questa non è infatti, nella mia permanenza al pronto soccorso, la prima attesa lunga (ma soprattutto una di quelle pressoché ingiustificate), tra una fase e l’altra del ricovero. Frattanto, nella stanza davanti alla quale sono in attesa, passano altri pazienti (ne ho contati quattro). A un certo punto chiedo (non proprio in maniera pacata, lo riconosco) se per caso la mia documentazione la stiano scrivendo a mano su pergamena, con inchiostro dorato in gotico catalano. Domanda, nella sostanza, più che legittima, mi pare, al netto dell’ironia con cui la pongo.
Ottengo risposte sgarbatissime e aggressive. Il luminare che mi ha in carico, poi, si permette addirittura di sbraitarmi che io non dovrei neanche essere lì al pronto soccorso, visto quello che ho. Gli faccio notare, non proprio con gentilezza (mi si compatisca) che la mia patologia è stata diagnosticata da lor signori medici medesimi come “severa”; e che comunque i sintomi che accusavo prima del ricorso al pronto soccorso avevano indotto un altro bravissimo medico mio amico (ma ahimè lontano, solo telefonico) a raccomandarmi che mi recassi immediatamente in ospedale.
Finalmente vengo convocato per la consegna in forma cartacea del referto e della relativa terapia. Entro dunque nel sancta sanctorum dei sanitari e ci trovo: il medico che sta appena iniziando (sic) a compilare le carte, nonché due infermieri, tutti e tre comodamente seduti se non stravaccati. E io intanto (che sono l’unico che non stia bene, fino a prova contraria) lì in piedi, dopo una ventina di ore di via crucis, ad attendere l’estenuante compilazione. Dopo un po’ mi prendo la magra soddisfazione di osservare: “Chiedermi se mi voglio accomodare seduto, no, eh? Mi pare che ci stia”. Nessuno fiata, ma uno degli infermieri si alza e mi lascia sedere.
Io penso che se tutti i pazienti (e non solo qualche rompiscatole come me) avessero l’impazienza di far notare ai sanitari, seduta stante, i loro vari disservizi e anche i loro comportamenti scorretti e barbarici, forse questo aiuterebbe a far andare un po’ meglio le cose nella sanità. Meglio cercare di far valere i propri diritti nei luoghi in cui vengono calpestati, che mugugnare al bar tra gli amici e le birre.