
L’empatia per fermare i lupi
21 Settembre 2023
COSTUME E MALCOSTUME I cosiddetti post e la forma del contenuto
29 Settembre 2023Qualche amica mi critica perché non sopporto il velo cosiddetto islamico
perché lo ritengo un simbolo di soggezione. E quando lo vedo indossare da
bambine piccolissime – cinque, sei anni, ben prima del menarca che in
qualche modo sancisce l’entrata nel periodo della pubertà e poi
dell’adolescenza,- quando vedo donne adulte, ma ancora giovanissime, con
un mantello che copre tutto il corpo, al di fuori degli occhi, magari difesi da
occhiali scuri, e con i guanti, mentre fuori il termometro segna ben oltre i 35
gradi e il 90 per cento di umidità, mi sorgono sentimenti contrastanti tra la
pena e la rabbia. Possibile che non si ribellino, non si oppongano a costumi
ancestrali contrabbandati per imposizione religiose? Poi spesso vedo uomini
in t-shirt che spingono carrozzine popolate di bambini o li tengono in braccio,
orgogliosi del loro prodotto, mentre la moglie se ne sta dietro a 10 passi di
distanza: sembra sia ritenuta solo un contenitore prolifico, da mettere da
parte quando ha finito di funzionare. Ancora, in questi giorni leggo di un imam
che nel democraticissimo Regno Unito spiega in un video il modo corretto di
lapidare la donna adultera: fare una buca abbastanza profonda per
nascondere con pudore le parti intime e poi iniziare la lapidazione fino a
provocarne la morte. Anche nella democraticissima Italia un PM chiede
l’assoluzione per un marito violento perché quest’ultimo si identifica nella
cultura di origine, che giustifica tali forme di violenza.
Certamente l’appartenenza a una comunità impedisce a queste donne
qualunque forma di ribellione, perché dipendenti dal punto di vista
economico, non lavorando, e perché, non conoscendo neppure la lingua del
nostro paese, sono nell’impossibilità di comunicare. Vere prigioniere della
comunità in cui si identificano. Per questo mi ritengo fortunata di essere nata
in questo Paese, in questo tempo.
Poi leggo sui giornali delle donne italianissime stuprate e uccise.
Ma che cosa sta succedendo o meglio continua a succedere?
Penso al lungo percorso delle donne dall’Ottocento ad oggi per conquistare i
loro diritti. Sebbene alcune donne avessero partecipato ai moti del 1848, e
ancora prima dell’unità d’Italia, in Lombardia, Veneto e Toscana, fosse stato
concesso, con molti limiti di censo, il voto amministrativo alle donne, nel
1865, una volta formato il Regno d’Italia, venne approvata una legge
elettorale amministrativa che escludeva dall’elettorato attivo e passivo
analfabeti, donne, falliti, vagabondi, detenuti in espiazione (Simonetta
Soldani, “Prima della repubblica. Le italiane e l’avventura della cittadinanza”,
in Una democrazia incompiuta, a cura di Nadia Maria Filippini e Anna
Scattigno, Franco Angeli 2007, p.67). Si riteneva quindi che il genere
femminile, per nascita, appartenesse al gruppo dei “minorati civili”, senza
possibilità di evoluzione e quindi nella sfera pubblica le donne erano
ampiamente soggette alla potestà del marito, loro onnipotente padrone e loro
unica protezione pubblica, grazie a norme particolarmente rigide in materia di
autorizzazione maritale e di cittadinanza politica. (Ibidem p.66).
A questo punto non mi dilungo nel raccontare tutte le battaglie, le conquiste
via via in progress fatte dai comitati femminili, formatisi nei primi anni del
Novecento, fino ad arrivare al Decreto del gennaio 1945 che sancisce il diritto
di voto alle donne (dopo un precedente voto alla sola Camera del 1919),
diritto però ancora sentito da molti parlamentari come una generosa
concessione e non come una conquista, ancor più dopo la partecipazione
alla lotta di liberazione che aveva visto un attivo protagonismo femminile.
Per chi volesse comunque approfondire, oltre al saggio già citato, nello
stesso volume si veda il saggio di Paola Gaiotti de Biase, “Donne. Politica
nella Repubblica, dal Dopoguerra agli anni ’60.” (pp 91-130)
È, però, il movimento femminista degli anni Settanta che mette in luce quali
sono i punti di forza per l’affermazione dei diritti, nello specifico per le donne:
la scoperta del corpo e il superamento del gap tra “personale” e “politico”.
Il corpo è mio, lo gestisco io: significa non essere pensata più come un
contenitore, come una fattrice che fornisce sia carne da macello alla patria
sia umanità operosa per costruire nazioni ricche e moderne. Quando una
donna sente che dal suo corpo esce un bambino o una bambina vivo/a che
sarà poi un individuo indipendente, che ne sia consapevole o no, sperimenta
la vertigine del potere: il creare.
La maternità rappresenta un potere di straordinaria felicità ma anche di
immensa responsabilità. Quindi può e deve essere una scelta di libertà che
ogni donna compie con la consapevolezza di vivere in una certa condizione
sociale, economica, politica. Insomma di stare dentro la storia umana, e di
condizionarla pure.
L’altra forte intuizione del movimento femminista è stata quella de il personale
è politico. Infatti un motivo che impediva alla donna il riconoscimento
dell’eguaglianza nel processo di costruzione di una società di liberi ed eguali,
dopo l’Ottantanove della Rivoluzione Francese, era l’affermazione di una
“naturale appartenenza” ad una sfera, quella del privato, ipostatizzata dal
liberalismo nascente come strutturalmente altra rispetto al mondo della “città”
e della politica e dominata da una entità-famiglia che appariva sempre meno
legittimata, almeno formalmente, ad avere un ruolo nell’ambito pubblico-
politico. (Una democrazia incompiuta, op.cit. p.45)
C’è ancora, a mio avviso, un ostacolo al pieno riconoscimento dei diritti
umani alle donne ed è una mera questione di potere. Da dove nasce, infatti,
questa preoccupazione del calo demografico?
Bisogna avere il coraggio e la forza ri-fondare una società in cui ri-
considerare un potere non più basato sulla forza, ma piuttosto sulla ragione e
sulla partecipazione. Qui si apre un altro complesso capitolo. Certo è che
senza guerre, senza violenze saremmo tutte e tutti più felici. Ma per farlo
occorre mettersi in discussione. Ed è il mondo maschile che lo deve fare per
iniziare un cammino nuovo, insieme; per produrre un salto di civiltà. E capire
quel groviglio del cuore umano che ci porta a far emerge la -non dobbiamo
aver timore di chiamarla con il suo nome- “cattiveria” dell’essere umano.