Il “no” della Raggi e certi “no” molto veneziani
6 Ottobre 2016Il risveglio della Nazione
19 Ottobre 2016Il primo giugno di quest’anno, in Belgio (ma presto potrebbe capitare in molti altri Stati dell’Unione), la Corte di Cassazione ha sollevato una questione davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul caso di Samira Achbita (Causa C-157/15), signora di religione musulmana, licenziata dall’azienda perché voleva portare il velo durante le ore di lavoro.
Il ricorso era stato respinto sia in primo grado, sia in appello.
La questione posta alla Corte dell’Unione è se un datore di lavoro privato possa vietare ad una dipendente, di fede musulmana, di indossare il velo sul luogo di lavoro e se questi possa licenziarla qualora quest’ultima si rifiuti di toglierlo. Sono queste, in sostanza, le questioni che, nel caso in esame, la Corte di giustizia è tenuta a risolvere per la prima volta sotto il profilo del diritto dell’Unione, e segnatamente nell’ottica del divieto di discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.
Nel caso specifico la tedesca Juliane Kokott, Avvocato Generale designato dalla Corte di Giustizia UE, le cui conclusioni, vale la pena ricordarlo, non pongono vincoli sulla decisione finale della Corte, ha ritenuto che il divieto non costituisca discriminazione diretta, in quanto si fonda su una regola aziendale generale incentrata sull’idea di vietare sul lavoro segni politici, filosofici e religiosi visibili e non è una regola basata su pregiudizi o stereotipi nei confronti di una determinata religione. In altre parole non è ravvisabile un trattamento discriminatorio improntato su basi religiose.
Se il rischio di una discriminazione diretta sembra quindi scongiurato, non altrettanto potrebbe dirsi per il rischio di una discriminazione indiretta, in quanto potrebbero essere penalizzati tutti coloro che professano un particolare credo religioso e/o ideologico.
Anche questo rischio però potrebbe, di fatto, essere scongiurato, ritenendo più che legittimo il perseguimento di una politica di neutralità religiosa ed ideologica da parte di un datore di lavoro all’interno della propria azienda.
Ciò però, secondo l’Avvocato Generale, a una condizione, vale a dire che anche in un simile contesto venga rispettato il principio di proporzionalità, in base al quale il Giudice belga (ma presto, come detto, anche gli altri Giudici nazionali) sarà a chiamato a ponderare gli interessi in campo, tenendo conto di parametri quali: le dimensioni e la vistosità del simbolo religioso, il tipo di attività svolta sul lavoro, il contesto in cui tale attività viene svolta nonché l’identità nazionale dello Stato membro.
Sarà il controllo di proporzionalità lo strumento giuridico attraverso il quale risolvere casi di questo tipo.
Sarà necessario, pertanto, tener conto del principio secondo cui, nel valutare complessivamente tutte le circostanze ed i parametri citati prima, se è pur vero che la religione rappresenta per molti un forte elemento identitario e la sua libertà è valore fondamentale in una società democratica, è altrettanto vero, come argomentato dall’Avv. Kokott, che mentre un lavoratore non può nascondere in un cassetto il sesso, il colore, l’origine etnica, il proprio orientamento sessuale o il proprio handicap, può, invece, essergli richiesta legittimamente dal proprio datore di lavoro una certa riservatezza per quanto riguarda l’esercizio della religione sul luogo di lavoro, sia che si tratti di pratiche religiose sia che si tratti dell’abbigliamento indossato.
Ancora una volta l’impatto delle decisioni Comunitarie sulle singole legislazioni degli Stati membri appare molto forte e richiede impegno da parte di tutti al fine di armonizzare contesti e problematiche sempre più comuni.