Insegnanti: volontari romantici o professionisti?
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13 Giugno 2022“Sei proprio bravo, sai: fai delle foto molto belle. Però, come dire… io preferisco quelle… naturali, senza ritocchi e manipolazioni varie…” Ultimamente mi sono sentito ripetere spesso frasi di questo tenore. Dove naturali significherebbe “fotografie che mostrano la realtà semplicemente come essa è, senza trucchi e infingimenti”. Beh, può sembrare una buona idea, così, sui due piedi. Ma vediamo.
La questione è molto interessante, e mi si perdoni se la prendo un po’ alla larga (ma ci sta). Il mito della obiettività nella rappresentazione del reale nasce nella seconda metà dell’Ottocento, quando un nutrito stuolo di scrittori e romanzieri decisero che basta con le fanfaluche: loro avrebbero ritratto la realtà vera di tutti i giorni, la vera realtà sociale, quella della gente comune, anzi, della povera gente (diseredati, contadini, pescatori, operai, magari anche piccolo-borghesi e simili) per mostrarla così come essa effettivamente era.
E vollero anche rappresentarla in maniera del tutto impersonale, asettica, oggettiva (oggettiva: ecco la parola magica). Vollero scrivere romanzi che fossero quasi dei “documenti sociali”, senza che trasparisse il loro stesso punto di vista sulle cose e sui fatti narrati, senza interferenze di valutazione e giudizio su avvenimenti e personaggi. Insomma, in maniera obiettiva, appunto. In questo modo le “contraddizioni della società”, ed in particolare le ingiustizie sociali, sarebbero emerse da sé, nude e crude, per quello che effettivamente erano, grazie alla forza stessa di una rappresentazione imparziale e veritiera.
Ora, questa “poetica”, questo “canone dell’impersonalità” fu una grande innovazione, una vera rivoluzione, a quel tempo. Sennonché, non bisogna poi confondere le intenzioni con i risultati. Perché l’obiettività, in fatto di rappresentazione della realtà, bisogna rassegnarsi, non è cosa di questo mondo. Chiunque racconta e rappresenta una realtà, infatti, ci mette dentro inevitabilmente del suo: la sua mentalità e la sua visione delle cose traspaiono fatalmente, e orientano il racconto in modo non oggettivo.
Secondo ed ultimo esempio. Più o meno nello stesso periodo anzidetto, i cosiddetti pittori “impressionisti” presero a dipingere in modo per così dire rapido e sintetico, e in un certo senso sommario, senza la tradizionale attenzione maniacale ai particolari dei loro predecessori. Questi nuovi artisti volevano infatti cogliere la realtà così come essa effettivamente è, cioè come appare a chi la guarda in un determinato e preciso momento del giorno, prima che la luce cambi e che cambino i toni, le ombre, i colori. Insomma volevano rappresentare la realtà in maniera oggettiva (e rieccoci con la parola magica).
Le intenzioni erano buone, ma anche i pittori impressionisti, in verità, interpretavano e trasformavano la realtà da essi ritratta: ne vedevano certi aspetti, ne trascuravano alcuni, ne enfatizzavano altri; per volontà di sintesi, magari. Insomma, ci mettevano del proprio: registravano il mondo esterno alla luce della propria interiorità.
Tutto ciò (e sto arrivando al punto) è semplicemente inevitabile. E’ quello che accade, ad esempio, quando dei comuni mortali come noi contemplano, che so, una nuvola nel cielo o la macchia d’umido su un muro. Capita sovente che ciascuno ci veda dentro un’immagine diversa: uno ci vede il volto di una donna, un altro ci ravvisa le fattezze di un animale e un terzo, magari, v’intravede il profilo di un corpo… Eppure la nuvola è la stessa, la macchia d’umido è la medesima.
Sennonché, a un certo punto questo mito dell’impersonalità e dell’obiettività venne meno, per ciò almeno che riguarda le immagini e le arti figurative, e ciò accadde con l’invenzione e il perfezionamento della fotografia. Ecco – si disse allora – adesso non c’è più gara: sarà pur vero, magari, che scrittori e pittori sempre travisano e deformano un po’ la realtà che rappresentano, ma con la fotografia no, non è più cosi! La fotocamera è infatti uno strumento “meccanico” (ieri analogico, oggi digitale, ma questo ora poco importa), la fotocamera è una “macchina” che registra fedelmente il mondo reale così come esso effettivamente è o come appare allo sguardo.
E invece no, non è così. Non voglio dire, beninteso, che i rilievi fotografici di un incidente stradale, poniamo, da parte dei carabinieri non siano un resoconto efficace e veritiero di ciò che sta lì sulla strada accartocciato o divelto. Sto dicendo però che anche la fotografia non è affatto una rappresentazione fedele, impassibile, certa, completamente attendibile e obiettiva del mondo. Macché.
Chiunque fotografi con intenti appena appena un po’ estetici (e sono tanti che lo fanno, no?) compie sempre delle scelte che fanno la differenza. Intanto sceglie i soggetti: sì, un paesaggio, ma quale paesaggio esattamente e (a parità di soggetto) viene ripreso da quale angolatura? Poi sceglie l’inquadratura: più alta, più bassa, più stretta… Sceglie anche il formato della sua immagine: basso e largo, alto e stretto, quadrato… Anche soltanto queste scelte preliminari fanno la differenza: esse sono già un’interpretazione della realtà che si ritrae. E poi il fotografo interviene anche sui toni, sui contrasti, sui colori (un tempo con lo sviluppo e la stampa della pellicola; oggi con il cosiddetto ritocco digitale).
In tal modo il fotografo interpreta (e magari lo fa con l’encomiabile intento di essere il più possibile fedele alla realtà!) ciò che ha visto e ritratto: enfatizza i colori o li spegne; acuisce i contrasti o li smorza; taglia e riquadra l’immagine nel modo che, secondo lui, meglio corrisponde al “quid” di ciò che ha scelto di riprendere… e via di questo passo.
In definitiva, no: non esiste la fotografia “naturale”. Semmai esiste quella banale e casuale. Ma la fotografia più fedele allo spirito di ciò che è stato ritratto è precisamente quella che esalta ed interpreta le caratteristiche (quelle giudicate salienti dal fotografo) del soggetto fotografato. Perfino la fotografia, quindi, non è una rappresentazione fedele, imparziale, impassibile, esatta e oggettiva della realtà. Chi crede che sia così, semplicemente s’illude.