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20 Dicembre 2023Diritti Universali. O “non diritti”
23 Dicembre 2023A metà degli anni Sessanta Umberto Eco pubblicava Diario minimo, una geniale raccolta di saggi. Tra questi ne spiccava uno che, quando il libro uscì nelle librerie, diede una prova strepitosa della forza con cui il filosofo analizzava i fenomeni di costume. Il saggio è La fenomenologia di Mike Bongiorno.
Mike Bongiorno, celebre presentatore di quiz, fu e continua ad essere un’icona della televisione italiana. In epoca pre-digitale, quando ancora il tubo catodico la faceva da padrone nel mondo dell’informazione e dell’intrattenimento, personaggi come lui, capaci di entrare con garbo e simpatia nelle case degli italiani, riuscivano a dominare la scena culturale. In realtà Umberto Eco non ne fa un quadro molto lusinghiero. Parla di lui come dell’everyman per eccellenza: “bellezza modesta, sex-appeal limitato, gusto discutibile, una certa casalinga inespressività”. Insomma, caratteri, questi, che assolvevano l’italiano medio dallo spettro della mediocrità. Se tanto fascino spontaneo e tanta assenza di costruzione e di finzione scenica ne avevano fatto un mito, se tutto questo era stato possibile, nessuno avrebbe corso il rischio di sentirsi inferiore. Neanche il più sprovveduto.
Erano i tempi in cui presentatori e annunciatrici, attori e cantanti erano modelli da osservare con attenzione e da imitare. Pochi intellettuali svolsero l’analisi ironica e sorprendente di Eco. Ma questa è un’altra cosa che attiene a quel genio del professore di Alessandria. Tuttavia, mai Eco si sarebbe sognato di scrivere la fenomenologia di Berlinguer, di Almirante o di Andreotti. C’era un alone di ieraticità che circondava i politici. Una distanza che si fondava su preparazione e autorevolezza. Qualunque fosse il punto di vista dell’osservatore. Tra le tante rivoluzioni compiute da Berlusconi, c’è anche quella di aver trasformato ministri e parlamentari in personaggi che, a seconda dei casi, sono diventati istrioni, guitti, giullari o buffoni di palazzo.
E veniamo a oggi. Quando la Meloni ha portato al governo parenti e amici, ci siamo fermati, più o meno tutti, ad osservare. Malgrado si percepissero le ragioni di tali scelte, improntate a un primitivo nepotismo piuttosto che a un riconoscimento di competenze, siamo rimasti a guardare l’assegnazione di posti di potere compiuta con la sicumera di chi finalmente può condurre il gioco del comando. Certo, personaggi come Lollobrigida, Sangiuliano, Santanchè erano conosciuti al grande pubblico, ma molti hanno preferito adottare il saggio mantra del “lasciamoli lavorare”. Purtroppo, la mediocrità e l’incompetenza sono emerse quasi subito e, malgrado le cadute di stile, una buona dose di supponenza ha indotto queste persone a mantenersi saldamente ancorate ai propri posti di potere. L’ormai nota sostituzione etnica, l’intervento proditorio su Trenitalia di Lollobrigida, così come la scarsa dimestichezza con i libri del ministro della cultura o il suo voler attribuire a Dante un fascismo ante litteram, potrebbero essere oggetto di un’analisi spietata che evidenziasse l’inadeguatezza di questa classe dirigente. Inadeguatezza che è sotto gli occhi di tutti, ma che non scalfisce il successo dell’attuale governo. Il fatto è che, diciamocelo, la mediocrità ci piace. E ci piace perché, per dirla come Eco, lo spettatore/elettore “vede, in questi personaggi, glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti”.
Non credo che i nostri politici possano diventare degli idoli al pari di Mike Bongiorno. I tempi sono cambiati ed essi non godono della stessa centralità. La cultura dei social, peraltro, macina e stritola con velocità impressionante tutto ciò che le passa sottomano, proiettando brevi coni di luce. Né possiamo parlare di successi strepitosi. C’è però una tendenza accreditata a riconoscersi nel pensiero semplice, nella sintassi povera, nel linguaggio privo di metafore, se non quelle assorbite dal lessico comune. L’accessibilità primitiva della comunicazione affascina e si rende affidabile perché non richiede sforzi e ci assolve da complessi di inadeguatezza, assolvendo in pieno, di conseguenza, chi ci emenda così generosamente dai nostri limiti. E poi che dire del potere consolatorio di affermazioni quali “i poveri mangiano meglio di noi”? Strategia che ci rende tutti uguali e ci fa sentire finalmente in una botte di ferro. Un’ineccepibile strategia della mediocrità.