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Il Politically correct”, nato soprattutto negli Stati Uniti d’America negli anni ‘70 e, più in generale, nei paesi anglosassoni, comporta la modifica e la sostituzione di espressioni linguistiche preesistenti con corrispondenti nuove locuzioni o perifrasi al fine di evitare che quei termini possano ferire o persino umiliare determinate classi di soggetti, classificati per “il sesso o l’orientamento sessuale, la salute fisica o mentale, il credo religioso, la provenienza etnica o geografica, l’appartenenza sociale, economica o politica, etc”.
“Politically correct” designa, infatti, un orientamento ideologico e culturale che esprime un eccesso di rispetto verso tutti, in base al quale le parole devono sembrare esenti da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di orientamento sessuale, etc”. Obiettivo: liberare il significante e di conseguenza il significato, cioè la persona a cui si riferisce, dallo stigma e da stereotipi; liberare da connotazioni che potrebbero essere lesive della dignità o offensive; ridurre l’effetto denigratorio e offensivo di determinate parole e scongiurare quel retrogusto di discriminazione e diseguaglianza sedimentate in alcune espressioni. Vuole evitare il linguaggio sessista (diritti della persona al posto di diritti dell’uomo); Vuole eliminare espressioni che evocano discriminazione nei confronti di minoranze etniche (come negro o giudeo) e di categorie con svantaggio fisico (ad esempio handicappato, cieco, a cui andrebbero preferite espressioni come diversamente abile, non vedente); Evita in generale espressioni tradizionalmente connotate in modo discriminatorio o spregiativo, ad esempio per quanto riguarda i nomi delle professioni (come bidello o becchino, a cui si dovrebbero preferire espressioni neutre come operatore scolastico e operatore cimiteriale).
Certo il politicamente corretto, che rifugge dall’offesa o dalla sottolineatura dello svantaggio di determinate categorie di persone, è “di sinistra”, è un contrassegno, un’etichetta, un nuovo conformismo e un segno di appartenenza, espressione di “idee progressiste”, strumento di battaglie etiche, morali-culturali. E’, quindi, un linguaggio più inclusivo. Il rispetto reciproco fra le persone, le culture, le religioni e le nazioni richiede necessariamente uno studio razionale della realtà e non dettato dal proprio giudizio.
D’altro lato, il rifiuto del politicamente corretto è “di destra”, di una destra becera che tradisce, attraverso l’uso di parole, il proprio giudizio sulla realtà denigrandola, disprezzandola. Il politically incorrect è una linea di pensiero il cui linguaggio e comportamento non tengono conto delle offese che potrebbero arrecare a determinati gruppi di persone e talvolta risalta esplicitamente i “difetti”, il lato debole di tali categorie.
Se il politicamente corretto è progressista, l’hate speech è manifestazione di un pensiero retrivo, conservatore, strumento per mettere gli altri in ruoli e posizioni di inferiorità e mettere chi lo usa, in ruoli e posizioni di dominio. Un modo per schierarsi ideologicamente. Esprime la legge del più forte e presuppone una presunta normalità alla quale ci si appiglia e ci si dovrebbe uniformare, presumendo che l’altro sia deviante rispetto a quella e quindi da emarginare e rigettare.
E contro il politicamente corretto rivendicano il free speech, la libertà di potersi esprimere. Comunque spesso il diritto di esprimersi liberamente confligge con il dovere del rispetto nei confronti dell’altro che dovrebbe essere un imperativo categorico. Perchè le parole, emotivamente, hanno un impatto reale sulle persone.
Sappiamo che le cose non esistono se non sono nominate, le parole fanno esistere e consistere le cose, danno loro consistenza ma danno anche una connotazione ben precisa a ciò che stai nominando.
Se la parola è la cosa, le parole creano il mondo, se nomini una cosa questa esiste e si oggettivizza. La parola dà voce ai sentimenti, alle emozioni, all’idea di mondo che abbiamo, esprime idee, concetti, crea connessioni, descrive la realtà, gli uomini, colloca le cose nel mondo, dà senso e valore agli oggetti, alle persone, dà identità, dà forma al pensiero, organizza il pensiero, orienta le riflessioni, sistematizza le idee, direziona giudizi, consente la comunicazione interpersonale, ci dà una rappresentazione del mondo, lo interpreta, lo trasforma. Nominare le emozioni dà loro ordine. Ci consente una comprensione profonda delle cose, dell’altro. E’ strumento della ragione e del processo razionale. Le parole sono la forma in cui una civiltà ha concepito il mondo, la semplificano o la rendono complessa. Denominano le cose del mondo in cui viviamo al fine di identificarle, riconoscerle, condividerne sostanza e senso, al fine di porre le migliori basi per la comprensione reciproca.
Così se il politicamente corretto negli ultimi decenni è stato dominante, oggi è sottoposto ad un’irrisione e messo in discussione soprattutto da certe frange di destra in nome di una libertà di espressione pretestuosa: “se voglio chiamare uno frocio, devo essere libero di farlo”, disse una volta qualcuno ma la cassazione ha stabilito che si configura come reato.
Ma al rigetto, al rifiuto e all’irrisione del politicamente corretto fanno da contraltare le parole di odio, anzi proprio quelli che rigettano il politicamente corretto sono proprio quelli che usano l’hate speech con disinvoltura. Liberano l’odio che covano dentro e, dichiarando ipocrita il politicamente corretto, mettono a nudo lo spregio nei confronti di certe categorie e il loro bisogno di svalutazione e svilimento dell’altro, oggetto del proprio disprezzo.
Ma se free speech è libertà di parola, hate speech è parola dell’odio che può diventare incitamento e a volte crimine, hate crime. La parola che odia è quella che aggredisce verbalmente e offende una persona o un gruppo sociale. Le parole possono essere umilianti, possono diventare dolorose, a tal punto da spingere, in alcuni casi estremi al suicidio di ragazzi che si ritrovano vittima di bullismo tramite hate speech. Spesso espressione di omofobia o di misoginia o xenofobia, islamofobia e antisemitismo o contro i disabili.
Interessante il progetto sperimentale voluto da Vox-Osservatorio italiano sui diritti che ha realizzato una mappa dell’odio in Italia attraverso l’analisi del linguaggio d’odio nei tweet. Nella distribuzione dei tweet negativi totali, nel 2020, occupano il primo posto le donne (49,91%), seguite da ebrei (18,45%), migranti (14,40%), islamici (12,01%), persone omosessuali (3,28%) e persone con disabilità (1,95%). La misoginia risulta ancora preponderante. I termini dell’odio usati prevalentemente in Italia sono “terrone” “zingaro” e “negro”, con chiara accezione e connotazione dispregiativa. La distribuzione dell’intolleranza è polarizzata soprattutto al Nord e al Sud, con minor riscontro nelle regioni centrali. L’insulto non deforma semplicemente l’oggetto, bisogna sporcarlo e trasformarlo in escremento «Frocio di merda»; «negro di merda»; «ebreo di merda»; «handicappato di merda», «troia di merda», espressione di un processo di disumanizzazione dell’altro che viene tanto più facile quando sei dietro una tastiera.
Quello che viene colpito soprattutto è il corpo e le sue forme. Il Body shaming ha la funzione essenziale di offendere svilire e svalorizzare la vittima che viene colpevolizzata per il suo aspetto fisico, svilendola, discriminandola e inducendola ad abbassare la propria autostima. L’altra/o, soprattutto, viene mostrificata, trasformata in vittima a causa del suo aspetto fisico, quando non si hanno argomentazioni per esprimere un’idea contraria.
E in tal modo si veicolano le idee e l’odio verso quella categoria attraverso le parole. Pensiamo a clandestino, Vu cumprà o Extracomunitario che sottende una valenza dispregiativa, infatti non ci verrebbe mai in mente di chiamare un americano o inglese extracomunitario, nonostante letteralmente lo siano anche loro. Barbone o lavavetri. E poi ancora pidiota se sei di sinistra o buonista quando sei rimasto umano, affrancato dal cinismo dominante e l‘elenco è infinito, con una denigrazione sistematica dell’avversario che spesso sfociano anche in auguri di morte, ormai sdoganati da un clima di arroganza dilagante. E sono strumento potente per la diffusione di un’idea di mondo, fatto di separatezza, di gerarchie, di rapporti di forza e della contrapposizione tra normalità e devianza.
E’ evidente, pertanto, che il linguaggio usato non è quindi relativo al rapporto tra il significante e il significato, tra il segno e le cose del mondo ma è legato all’idea che ho io della cosa, quindi non è usato in una prospettiva oggettiva ma soggettiva, è in gioco la valenza che io assegno alla cosa nominata, non all’oggetto reale ma alla rappresentazione che mi sono fatto della cosa di cui sto parlando. Ha a che vedere con l’idea che si ha di quella cosa. “Non esistono parole sbagliate ma un uso sbagliato delle parole perché ho un’idea distorta della realtà”.
Il linguaggio, infatti, non è statico ma in continua trasformazione.
E se il politicamente corretto non discrimina, rispetta, integra, assimila, include, l’hate speech esclude, ferisce, umilia, offende, intimidisce, emargina, respinge, rifiuta.
Certo, forse c’è una deriva del P.C., un uso troppo zelante, a volte un uso delle parole ipocritamente eufemistico rispetto a certe categorie, forse è diventata quasi una gabbia, ma la soluzione non è certo l’hate speech, cioè l’uso di termini volgarmente offensivi. L’antidoto contro tale deriva può risiedere nella riscoperta dell’”intimo legame razionale tra la parola e la realtà, non depositario di giudizi negativi e discriminatori”.
Inoltre il politicamente corretto non ha mai conseguenze nefaste sugli altri, invece spesso il discorso d’odio genera frustrazione, fragilità, senso di impotenza, di fragilità e insicurezza, svalorizzazione della persona e spesso si traduce in atti violenti o si inducono gesti autolesionistici. Basti pensare a come le parole di odio nei confronti delle donne, come etichette denigratorie come troia o puttana vengano utilizzate come espressione di misoginia o di affermazione della gerarchia e spesso si accompagnano a forme di violenza domestica fino ai femminicidi.
Ma tra l’uno e l’altro c’è una terza via, il “Parlare Civile”!
“Parlare civile” (titolo di un testo a cura di Redattore sociale) è, quindi, usare le parole giuste per comunicare senza discriminare, per esprimersi avendo chiara “consapevolezza del significato e del peso delle parole”, assegnando la giusta valenza al lessico, al rapporto tra significante e significato, senza connotarle negativamente.
Perchè dovremmo pensare che le parole sono pietre ma sono anche muri quando invece dovrebbero essere ponti!