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24 Febbraio 2025Non molto tempo fa un ministro della repubblica, in occasione di un incontro in cui si parlava di violenza di genere, ha dichiarato che la maggior parte dei crimini perpetrati contro le donne è frutto dell’immigrazione clandestina. In tale dichiarazione, che ha fatto molto discutere, è sotteso il pregiudizio secondo il quale il femminicidio è un’espressione aberrante e consueta di culture diverse dalla nostra. E, pur non escludendo che tanti maschi nostrani si macchiano di questo crimine, il maggior responsabile resta pur sempre lo straniero, il nemico, l’usurpatore.
Non v’è dubbio che crimini orrendi come quello di Saman Abbas avvenuto a Novellara (Reggio Emilia), barbaramente uccisa, qualche anno fa, dal padre e dallo zio, con la complicità della mamma, colpiscono profondamente il nostro immaginario collettivo, trasformandosi quasi in archetipi di violenza perpetrata per mano straniera. E non è stato il solo atto di violenza estrema contro una giovane donna per mano di parenti. Che dire delle pratiche di infibulazione che si effettuano a tutt’oggi anche in Italia? Le ragioni religiose e culturali che spingono gli assassini e gli aguzzini a compiere questi gesti, quando se ne ha notizia, sconvolgono l’opinione pubblica, mettendo in discussione i nostri parametri di tolleranza e di confronto. Sono fenomeni, questi, che vanno al di là dell’orrore che un femminicidio o un’infibulazione legittimamente provocano. Ci si chiede, infatti, quanto sia giusto accettare, in nome del multiculturalismo che caratterizza largamente la nostra società, tanta diversità di prospettive e una negazione così brutale dei diritti fondamentali.
In una democrazia la convivenza implica il riconoscimento dei diritti fondamentali di tutti. La diversità di religioni, di tradizioni, di usanze, di rapporti di genere, financo di cucine, di odori e di sapori rappresenta una sfida complessa. La nostra Costituzione garantisce il principio della diversità culturale e sostiene il diritto di diversi gruppi culturali ed etnici di mantenere distinte le proprie identità garantendo loro un accesso equo alla società. Sappiamo bene (e lo constatiamo giornalmente nelle nostre scuole, nei luoghi di aggregazione e in diversi ambienti di lavoro) come le società multietniche garantiscono crescita e visioni del mondo allargate. La multiculturalità è soprattutto intercultura: è scambio e crescita perché evita che si creino rapporti gerarchici tra culture più forti (quelle ospitanti) e culture più deboli (quelle ospitate). Ma è soprattutto tolleranza e accettazione, tutela delle diversità e riconoscimento unanime dei diritti fondamentali. In tale riconoscimento non devono trovare spazio relativismo e frammentarietà. Non è tollerabile, cioè, che alcune culture, all’interno di una stessa società, neghino o limitino tali diritti. In poche parole, se una cultura trova legittimo interferire nella libertà di parola, nell’uguaglianza di genere o nel diritto alla salute, questo va a minare alle fondamenta l’idea stessa di pluralità. E non è accettabile.
Quando si verificano casi di shock culturale, la democrazia si trova a un bivio perché, se da un lato non può tollerare che alcuni diritti universali vengano messi in discussione, sia pure solo da minoranze, dall’altro non può rinunciare al compito di garantire un pluralismo culturale che costituisce la base stessa della democrazia. La gestione della diversità culturale in una democrazia richiede un continuo dialogo che preservi i diritti di tutti senza perdere le singole identità. Il pluralismo culturale attiene a una fase matura delle nostre democrazie. Ma è sempre in divenire. Attiene a quel sano equilibrio che comprende apertura, sì, verso l’altro e, nello stesso tempo, difesa di quelle conquiste di libertà e di giustizia da ogni ideologia e cultura che tenti di eroderne la legittimità.
Si tratta di una sfida complessa, ricca di contraddizioni, ma è di certo un lavoro imprescindibile che ogni cittadino è tenuto a svolgere.