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3 Dicembre 2024È una fase questa in cui quasi quotidianamente i mass media ci informano di eventi elettorali in molti stati del mondo e in molte situazioni amministrative interne all’Italia. Si potrebbe dire: da Trump a Stefania Proietti – neo eletta governatrice dell’Umbria n.d.r. – , passando per l’Europa e per le sue code per stabilire i membri delle commissioni. Si confermano governi, si ribaltano, si riconfermano, si implementa continuamente lo spazio per il dibattito politico, soprattutto prima durante e dopo i passaggi elettorali. Non solo, le elezioni fanno da faro anche quando manca ancora molto tempo alla loro effettuazione, per parlare di candidature e programmi.
Ci si chiede: quanto contano queste scadenze per la società, che le elezioni e i loro riti vorrebbero rappresentare attraverso le scelte delle persone candidate? Contano fino a un certo punto, se si valuta l’afflusso elettorale, altalenante un po’ dappertutto, ma tendenzialmente da molto tempo calante, direi ovunque. Stride il clamore mediatico con l’indifferenza di quasi la metà del corpo sociale astensionista. Una fetta – difficile dire di che dimensioni – della responsabilità del maggiore o minore successo delle elezioni, nella percezione della gente chiamata alle urne, spetta alla legge elettorale in vigore nel tal posto o nel tal altro. E lì Il campionario di sistemi, dal piccolo comune fino alle dimensioni continentali dell’Europa, è veramente vasto e vario e raccapezzarsi è arduo. Roba da tecnici, soprattutto. E non è riduttiva la notazione, è veramente un campo nel quale la competenza è determinante. Al profano, ed io sono nel mazzo, è impossibile stabilire quale sistema elettorale si avvicini più di altri al far esprimere nel modo più completo ed esauriente la volontà popolare, riducendo la sfiducia che porta all’astensionismo. Ben sapendo che il sistema elettorale non è tutto, visto che molto dipende anche dal contesto di leggi costituzionali in cui è inserito e di cui è emanazione. Di conseguenza un luogo di idee e di pensiero, come vuol essere questa testata (think thank per gli anglofili), non può avere una linea propria sulla tecnicalità elettorale che si muove tra leggi, sistemi elettorali e contesto costituzionale. Recentemente ho avuto la sventatezza di definire ‘bastarda’ una legge elettorale. Sbagliavo nel dirlo a priori, senza una verifica. Infatti una linea, e più che una linea un convincimento, è invece possibile nel suggerire alcune esigenze prioritarie che il combinato disposto di tutto questo insieme in cui è calato anche il sistema elettorale, dovrebbe ottenere. O comunque, se non ottenere, quantomeno avvicinare come la miglior approssimazione, visto che la perfezione è impossibile. Son esigenze che a me personalmente paiono irrinunciabili, se si vuole che la democrazia sia un meccanismo che funziona e garantisca ai cittadini il rapporto tra la loro volontà e la rappresentanza politica che sono chiamati ad esprimere. La democrazia, quantomeno nelle sue dinamiche elettorali, è comunque un meccanismo imperfetto, ma dovrebbe cercare di essere il meno imperfetto possibile.
E’ perciò utile stilare una lista motivata di queste condizioni irrinunciabili che la macchina elettorale, tra leggi di contesto e sistemi elettorali, dovrebbe per approssimazione cercare di garantire il più possibile.
- La stabilità del governo, dalla municipalità comunale fino all’Europa.
Chi legifera e chi governa deve poterlo fare, dopo aver superato la prova elettorale, e tutte quelle che si succedono in seguito, senza contraddizioni e ostacoli, avendo il tempo di operare delle scelte e portarle a termine. Può essere una legge sul fisco, sul piano dei trasporti, ma anche l’appalto della ditta dello scuola bus di un asilo nido. Le grandi e piccole scaramucce dell’instabilità nuocciono all’efficienza delle scelte e l’inefficienza cade sui cittadini, generando una condizione di dispersione di energia, da entropia, si potrebbe dire, per usare un termine mutuato dalla fisica
Tuttavia, questa stabilità è necessaria non solo sul tempo medio tra un’elezione e l’altra, ma anche sul tempo lungo e molto lungo nel succedersi dei diversi governi e parlamenti. Dal momento che non si capisce come mai e perché la stabilità debba essere una virtù a tempo. Se stabilità si richiede, perché sia effettivamente tale dovrebbe essere garantita a tempo indeterminato. Parlo dunque della stabilità nel tempo di tutto ciò che viene scelto. Ogni scelta e ogni realizzazione politica in tutti i campi, di breve o di lunga durata, deve poter essere pensata, programmata, finanziata, realizzata ed essere permanente ed efficiente per una durata teoricamente illimitata dopo la realizzazione, restare stabile nel tempo o al più, e non è poco, visto che i tempi cambiano e le esigenze cambiano, essere ri-formata. Ma ri-formare significa dare forma nuova ad una realizzazione che resta nel tempo immutata nella sostanza, anche se i governi e i parlamenti cambiano. Questo in generale con poche eccezioni, che vanno contemplate per non apparire unilaterali e dogmatici.
Perché, se una cosa è buona, è buona per sempre. Se non lo è, non deve esistere fin dall’inizio. (La legge che in Italia stabilì la cosiddetta ‘media unificata’ nella scuola media oltre sessant’anni fa fu una buona legge e quella ‘media unificata’ ce la teniamo ancora stretta dopo un’infinità di governi e di diverse maggioranze parlamentari. La scelta della linea tramviaria nel Comune di Venezia fu una buona scelta, ma con difetti tecnici e di progettazione, e tuttavia sarebbe stupido e senza senso abbatterla per sostituirla con dell’altro. Ce la teniamo e la miglioriamo, la ri-formiamo, come ci siamo tenuti a Roma con senso pragmatico l’EUR fascista). L’obiezione che il buono e il non buono in politica è opinabile viene a cadere, perché i principi su ciò che è buono e ciò che non lo è non li decidiamo noi di volta in volta come ci pare, sono sanciti a priori dalla nostra Carta costituzionale, che non è solo una mera lista di regole di convivenza, ma una Carta con orientamenti politici precisi, avvallata a suo tempo da una maggioranza qualificatissima e confermata fino ad oggi. (Visto che può essere aggiornata continuamente in qualsiasi momento, cosa che qualche volta è stata fatta, del resto). Anche la bontà o meno di decretare la necessità di una linea tramviaria o di uno scuola bus , non tanto nella loro tecnica ma nella sostanza, per mille rivoli risale a ciò che è buono e a ciò che non lo è in quella Carta. La politica deve discutere e semmai dividersi (il meno possibile) su come si fa una cosa e non sul cosa si fa, perché le cose da fare vengono di conseguenza a dei principi che abbiamo stabilito ottant’anni fa. Non deve, cioè, essere possibile che ogni nuovo governo disfi ciò che fa il precedente. Se il neo eletto Presidente degli USA Trump, per dire, riuscirà a smantellare la sanità pubblica statunitense, lo ha già fatto una volta credo, vuol dire che non c’è chiarezza al riguardo nella Carta del suo paese. Meloni in Italia può anch’essa cercare di far la stessa cosa, anzi sta cercando di fare questo, ma lo può fare fino ad un certo punto, arginata, e molto, da un articolo costituzionale, il 62, e se forza troppo i provvedimenti le verranno bocciati ( “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”).
In definitiva questo tipo di stabilità a tempo indeterminato nasce da una buona sintesi tra principi costituzionali e sistemi elettorali, che anch’essi dovrebbero metterci lo zampino. Per quanto mi riguarda lo zampino consiste nel fare in modo che la maggioranza governatriva e parlamentare di un quinquennio non sia mai esageratamente diversa da quello successivo e dal precedente., se no lo spoil system, anche se arginato da principi costituzionali, è una tentazione troppo forte.
- Il consenso a chi governa e a chi legifera dovrebbe essere più ampio del risicato 50,01 % dei votanti reali.
Intendesi più ampia del 50, 01% della volontà popolare espressa col voto e non dei seggi riportati, che, come si sa, molte leggi elettorali aumentano come premio, proprio con l’obiettivo della stabilità. Sostenere che una maggioranza risicata di un decimale sia già di per sé una garanzia democratica, mi scuserete, è una presa per i fondelli. (Lo sostengo da sempre anche per le partite di basket, dove la vittoria di un punto è in realtà un sostanziale pareggio, e come tale andrebbe considerato nelle classifiche). Soprattutto in una condizione in cui dappertutto vota ormai al massimo il 60% degli aventi diritto, ma molto più spesso il 50%, e anche meno. Rendiamoci conto che ormai in tutto il pianeta ci sono spesso, anche se non sempre, governi di minoranza, alla faccia della democrazia rappresentativa. Che autorizzano un incendiario come il leader della CGIL Landini a parlare del governo italiano come ‘illegittimo’ perché di minoranza, e purtroppo ha ragione. L’instabilità di questo tipo, vale a dire un governo di sostanziale minoranza, legittima anche certi sciagurati appelli alla rivolta sociale, c’è poco da fare.
Estremizzo e ritengo che ogni governo e ogni votazione parlamentare dovrebbe, in linea puramente teorica, poter contare almeno sulla rappresentanza numerica del 50,01 % non di chi ha votato, ma degli aventi diritto. So bene che è praticamente impossibile, ma un’approssimazione ragionevole a quella condizione di reale garanzia dovrebbe esserci. Se la stabilità, di cui al punto sopra, richiede premi al vincitore, la soglia di essi andrebbe aumentata e le vittorie risicate nei singoli collegi dovrebbero essere evitate. Come? La parola agli esperti, a noi interessa il cosa.
- Rappresentazione reale, almeno nel parlamento e nei consigli comunali, della maggior parte delle posizioni politiche che hanno ambito ad essere rappresentate.
Questo principio può scontrarsi con la stabilità ed è forse foriero di instabilità, ma è comunque necessario perché non si attui la cosiddetta dittatura della maggioranza. Può sembrare in contraddizione con la ricerca di maggioranze ampie e ‘qualificate’, di cui al punto prima, ma in realtà ne è un suo completamento. Anche se una maggioranza di governo potesse mai contare sul 70% del consenso reale (cosa quasi impossibile, almeno in Italia), è necessario che il restante 30 % possa ugualmente contare, avere udienza e poter incidere sulle scelte, almeno in proporzione alla sua forza. Sempre.
- Creare le condizioni per cui ogni scelta parlamentare non sia sempre condizionata da maggioranze e minoranze precostituite.
Perché ogni scelta e ogni votazione su un tal tema e sul tal’altro dovrebbe avere vita propria, ben distinta. Bisognerebbe dare continuità e non eccezionalità al principio che ogni eletto, non ha vincoli di mandato, come prevede un articolo costituzionale, il 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”). Non si capisce infatti perché il tal parlamentare (ma anche un ministro, che nei consigli di governo vota su tutto e non solo sui suoi temi) debba essere contrario (o favorevole, ma è lo stesso), per esempio al Ponte sullo Stretto di Messina e nello stesso tempo non possa invece essere favorevole (o sfavorevole), sempre per esempio, all’eutanasia e votare a favore (o contro) una possibile proposta di legge, visto che sono argomenti del tutto disgiunti. E invece no: è costretto dalla sua appartenenza a negarsi e a uniformarsi ad una logica mai messa in discussione – come invece si dovrebbe mettere – che accorpa temi in blocchi.
Perché, se si riflette, la democrazia dei partiti e degli schieramenti, umilia la soggettività delle persone, che su ogni tema, come è giusto che sia, ha una propria posizione non necessariamente accorpabile in blocchi omogenei, a meno che non abbia accettato a priori un programma elettorale. Cosa che succede raramente, visto che per la maggior parte si è chiamati a legiferare su argomenti non previsti programmaticamente da nessuno prima dell’elezione. Almeno per gli argomenti mai sottoscritti prima il non vincolo di mandato dovrebbe essere la regola. Si dirà che tutto ciò non dipende dai sistemi elettorali. Forse è vero e dipende dal fatto che il potere legislativo, almeno in Italia, è legato a doppio filo a quello esecutivo. Se si sganciassero, ogni votazione potrebbe teoricamente avere le sue maggioranze variabili, a seconda del tema e senza alcun danno per chi deve governare. Chi governa dovrebbe, in teoria, solo applicare la legge e non determinarla. Invece è tutto ribaltato, con i governi che di fatto legiferano. Orrore. Si può obiettare che in questo modo, con maggioranze sempre variabili si legifera di meno, per via di veti incrociati in maggioranze non blindate. Meglio. Meno leggi ma buone e soprattutto garantite da consensi più ampi e variati.
- Creare le condizioni per cui il confronto politico che precede, accompagna e segue le scelte elettorali non mini, o mini il meno possibile, la coesione sociale di una comunità.
Sia la coesione siociale di un piccolo comune, sia quella dell’Europa intera. Cercare, cioè, di correggere il più possibile la tendenza alla divisività che, fisiologicamente e inevitabilmente, le elezioni immettono nel corpo sociale.
Perché nella realtà di tutti i giorni la società è articolata in situazioni, le più disparate, difficilmente aggregabili in categorie o gruppi, ma sicuramente non è spaccata in due raggruppamenti netti, come risulta sempre dai risultati elettorali. Se la politica deve rappresentare la società, la divisività che essa genera non la rappresenta. Si parla tanto di inclusività come processo virtuoso, e se lo è, ne consegue che l’es-clusività è un elemento socialmente negativo. Ma la dialettica politica che precede, accompagna e segue gli avvenimenti elettorali si basa quasi sempre sull’esclusività reciproca. La felicità diffusa è una condizione che persino alcune carte costituzionali contemplano e non la si ottiene certo con ‘l’essere contro’, ma con ‘l’essere con’. È singolare che si invochi la pace laddove certo è più difficile e non la si contempli come condizione laddove sarebbe più semplice, cioè all’interno di una stessa comunità. Si parla di ‘negoziare’, di ‘compromesso’ per ottenere la pace in contesti di guerre con le armi e non si fa altrettanto per la politica interna agli stati. Si fanno continuamente appelli alla pace mondiale senza rendersi conto che la politica dei blocchi “ o di qua o di là” genera una guerra civile permanente. Dove la violenza verbale è parimenti grave tanto quanto quella fisica. Forse le leggi elettorali possono poco nell’evitare questo, ma, inserite nel contesto legislativo più ampio, posson evitare quella guerra civile permanente che è lo scontro politico all’interno di ogni stato.
- Evitare che il confronto elettorale si riduca ad un derby calcistico.
Mentre il derby è ciò a cui assistiamo spesso, quantomeno in Italia, e molto ma molto più spesso di ciò che accadeva nella paludata e compassata Prima Repubblica, di cui a volte si sente una struggente nostalgia, almeno nello stile di vincitori e vinti. Fa impressione vedere oggi un minuto dopo i primi dati elettorali esultanze da stadio degli stessi protagonisti, in piena trance agonistica come l’esultanza dopo un goal, e scoramenti speculari degli sconfitti. Questi atteggiamenti umiliano la democrazia, che non è una gara sportiva, ma è o dovrebbe essere un momento istituzionale alto, a cui una contrapposizione frontale agonistica dovrebbe essere estranea, e invece è oggi la norma per come è vissuta. Spesso in Italia il tal Sindaco eletto, che un secondo dopo la sua elezione rappresenta tutti i cittadini, anche quelli che non lo hanno votato astenendosi o votando un altro, lo trovi a sbeffeggiare la parte ‘perdente’ appena apprende di aver vinto, fornendo uno spettacolo indecente e diseducativo per i giovani ancora in formazione. Non solo nell’Italia dei guelfi e dei ghibellini, ma anche ormai in Svezia e nella felice Finlandia. Ricordo ancora l’art.67 della Carta: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione…”. E, per estensione, ogni consigliere comunale rappresenta la comunità comunale (tutta intera) e il Sindaco ancor di più. “Vincere” e “perdere” dovrebbero essere dei verbi banditi dal confronto politico elettorale. Non può certo un sistema elettorale evitare tutto ciò, ma ne deve tener conto, unitamente al contesto legislativo in cui si cala. Perché tutto contribuisce in un senso e nell’altro.
A questo punto si può sospendere il giudizio e verificare quanto le condizioni in cui si svolgono le contese elettorali, nella complessità legislativa in cui sono inserite, riescano ad ottenere questi obiettivi, tutti, nessuno escluso. La migliore condizione, tra leggi costituzionali e leggi elettorali, sarà quella che vi si avvicina di più.



