Cavallino Treporti, turismo “open air” e Blue & Green” community
11 Ottobre 2023A proposito di coming out
15 Ottobre 2023I primi ad accorrere sulla scena apocalittica dell’autobus che era appena precipitato dal Cavalcavia sulla strada verso Marghera sono stati il kosovaro Bujar Bukaj, il titolare di un ristorante nei pressi, e due nostri concittadini, che a casa loro stavano preparando la cena e, scossi dallo schianto terribile, si sono precipitati in strada.
I tre hanno, con una buona dose di benedetta temerarietà, affrontato le fiamme per prestare soccorso a chi, incastrato tra i rottami del veicolo, urlava disperate richieste di aiuto. Sono riusciti a tirare fuori da quella trappola mortale cinque persone. E pure un cane. Hanno con tutta probabilità salvato loro la vita. Rischiando la loro. Sono stati, giustamente, appellati come eroi. Perché posti di fronte a scelte drammatiche hanno pensato agli altri e non a cosa rischiavano essi stessi.
Bukaj è in Italia da molti anni e perfettamente integrato, gli altri due intervenuti non si chiamano Toni Vianello o Bepi Scarpa. No, si chiamano Godstime Erheneden e Boubakar Toure, sono due operai della Fincantieri, il primo trentenne, nigeriano, il secondo gambiano, 27 anni. Una bella storia, senza dubbio, che non può non far correre il pensiero, per contrappasso, alle molte volte in cui la cronaca ci ha offerto notizie certo meno edificanti con protagonisti immigrati africani. Ma sono considerazioni scontate.
Una considerazione meno scontata mi è venuta in mente sentendo in televisione Boubakar Toure, che raccontava quei terribili momenti e che, con parole molto dignitose, ricordava che lui ha salvato delle vite in qualche modo come “restituzione” al prossimo di ciò che si ha ricevuto (riferendosi a quando fu, lui, appunto salvato dalle onde del mare). Mi ha colpito come parlava: un italiano certo comprensibile ma incerto, approssimativo. Una conoscenza della nostra lingua basica, non tale da esprimere e comprendere ragionamenti complessi. Eppure, Boubakar è in Italia da parecchi anni. Pensiamoci bene, abbiamo un abitante ormai stabile della nostra città, che ha dimostrato con quello che ha fatto di essere una bella persona, da testimonianza diretta di un conoscente so per certo che è lavoratore bravo e affidabile e apprezzato da tutti. Boubakar potrebbe essere una risorsa per la nostra comunità, un elemento di integrazione, un ponte tra diversità.. ma non lo diventerà, con tutta verosimiglianza, mai. Perché gli manca uno strumento fondamentale: la lingua con cui esprimersi e comunicare in entrambi i sensi. Non l’ha imparata (bene) in sette anni di permanenza in città.
Ecco, io credo che questo piccolo particolare apra una luce su uno dei problemi che non vengono mai citati quando si tratta del problema immigrati nella terraferma veneziana, quando si citano (giustamente) i problemi di criminalità, anche di rispetto delle regole (anche banalmente solo conferire i rifiuti nel cassonetto giusto). Certamente la lingua non condivisa è uno degli ostacoli alla comunicazione, ça va sans dire, ma anche alla condivisione, al nutrire un progetto appunto condiviso di comunità. Al contrario, parlare male la lingua del Paese ospitante, porta quasi inevitabilmente a ricercare e coltivare rapporti solo all’interno della propria comunità di origine, crea muri, crea indifferenza al bene comune, se non diffidenza. Già dobbiamo fronteggiare l’oggettivo ostacolo delle diversità culturali e religiose (problema enorme, già trattato molte volte https://www.luminosigiorni.it/2012/07/il-dilemma-di-antigone/ e https://www.luminosigiorni.it/2015/01/il-difficile-esercizio-della-convivenza/ ) che è in larga parte ineliminabile, ma sulla lingua, sull’italiano, possiamo o no tentare di agire?
Anni fa in Germania, in concomitanza dell’arrivo in massa di profughi siriani, Angela Merkel aveva concepito la politica del fördern und fordern, cioè “sostenere ed esigere”. Una misura che prevede tutta una serie di misure per rendere più facile l’accesso al mercato del lavoro ma anche sanzioni per chi si rifiuta di imparare il tedesco e di integrarsi in Germania. L’obiettivo dichiarato era appunto quello di evitare la formazione di ghetti.
Con un pragmatico decisionismo, molto tedesco, si è ipotizzata la possibilità di obbligare i rifugiati e i migranti che godono di protezione sussidiaria a frequentare i “corsi di integrazione”, che si compongono di un corso di lingua e di un “corso di orientamento”, nel corso del quale vengono fornite nozioni sulla storia, la cultura e i valori del Paese ospitante. Chi non vi partecipava o non li portava a termine era soggetto a tagli alle prestazioni sociali.
Attenzione che una buona conoscenza della lingua del Paese ospitante è un vantaggio per tutte le parti: non solo per la comunità ospitante, per i motivi elencati sopra, ma anche e forse soprattutto per gli stessi immigrati che si dotano di strumenti di conoscenza, che li rendono consapevoli dei loro diritti oltre che dei loro doveri. Un’amica avvocato, tanto per fare un esempio, mi diceva che si è trovata a rappresentare un operaio bengalese della Fincantieri, una delle tante vittime del verminaio di illeciti favorito dalla pratica dei subappalti a pioggia. Mi raccontava della quasi totale incapacità di comunicare, di contestualizzare la propria situazione.. insomma una vittima predestinata dei pescecani.
Prevengo l’obiezione: la lingua non basta a integrare e ne abbiamo prova empirica dalla Francia, dove le banlieues ribollono di cittadini che parlano perfettamente francese ma non si sentono cittadini di Francia. Certamente, non è una condizione sufficiente ma è di sicuro una condizione necessaria. Credo che sia un tema da porre, a livello nazionale, nel set di politiche da intraprendere per una felice e rapida integrazione degli stranieri che si stabiliranno qui. Ne va del futuro di tutti noi.
Parallelamente all’attenzione agli adulti, va alimentata quella verso i bambini di età scolare. In molte realtà vi sono classi elementari in cui la presenza di bambini stranieri è maggioritaria e ciò rende ineludibile quantomeno porsi il problema di insegnamento differenziato della lingua. Con evidenti vantaggi, sia per i giovani immigrati che devono poter ricevere un insegnamento più focalizzato sulle loro esigenze, che sia capace di aspettarli e guidarli verso un apprendimento di una lingua che a casa non parlano, sia sui loro compagni di madrelingua italiana che non è giusto siano penalizzati da un’asticella delle aspettative eccessivamente bassa. Mi rendo conto che è un terreno delicato e che dietro l’angolo c’è l’accusa di voler introdurre “classi ghetto”. In realtà è esattamente il contrario: è proprio l’insegnamento differenziato che getta i semi per una maggiore integrazione.
E un pensiero andrebbe fatto anche a livello locale, anche nella nostra città.. in tanti dibattiti su degrado e criminalità, tra le tante ricette, più o meno improvvisate, che sono state proposte, potrei sbagliarmi ma non mi pare di aver mai sentito porre l’accento sulla lingua. Certamente un’amministrazione comunale non ha gli strumenti coercitivi dello Stato centrale ma una campagna di italiano per stranieri, magari ben pubblicizzata, customizzata per le varie comunità, potrebbe essere un’idea da perseguire. I risultati potrebbero essere sorprendenti.
© immagine di copertina: RSI