Sessismo e luoghi comuni
17 Luglio 2023Migranti – Uno sguardo etico
23 Luglio 2023Sappiamo che i flussi migratori dureranno ancora per anni, in quanto costituiscono un fenomeno strutturale e non emergenziale. Al riguardo, alcune constatazioni dovrebbero essere condivise, anziché radicalmente divisive.
La prima è che dell’emigrazione il nostro Paese ha bisogno, per il vistoso calo demografico e per il sostegno alle attività produttive. Inoltre, attraverso le tasse, per il sostegno al nostro welfare, senza contare che le rimesse degli emigranti costituiscono un aiuto per l’economia dei paesi di provenienza.
Un’altra constatazione è che non possiamo accogliere tutti, continuamente e indiscriminatamente; la situazione economica di vari paesi dell’area magrebina, la continua crescita demografica in Africa, non lasciano prevedere nemmeno un affievolimento degli arrivi, almeno a breve scadenza. Qualsiasi paese prima o poi si trova nella necessità di contrastare e/o scoraggiare i flussi.
C’è un’altra considerazione: qualsiasi soluzione venga – sia pur temporaneamente – adottata, finisce per risolvere alcuni dei problemi, lasciandone insoddisfatti altri. Se l’accoglienza – soprattutto quella subita – vuole soddisfare le richieste di chi si affaccia alla nostra porta, non soddisfa le richieste di uscita dalla povertà di chi rimane nei territori di partenza, di chi non ha i mezzi per pagare il transito, di mare o di terra.
Le due posizioni radicali, urlate attraverso gli slogan “porti aperti” e “porti chiusi”, ed alimentate ai fini di scontro politico, hanno finito per offuscare problematiche di migranti e di cittadini.
Ci sono state iniziative legislative di carattere regolativo finalizzate ad un primo inquadramento dei flussi e concernenti la prima accoglienza: la legge Turco-Napolitano del marzo 1998, la legge Bossi-Fini del luglio 2002, il decreto legge Minniti del febbraio 2017, i decreti Salvini dell’ottobre 2018.
L’immigrazione continua e i flussi clandestini hanno messo in difficoltà le prime regolamentazioni. E’ mancata una politica di grande impatto, sostenuta da grandi risorse, tesa ad inquadrare e gestire – almeno come tentativo – un fenomeno epocale; e tesa a regolare le fasi successive alla prima accoglienza.
Il divario tra paesi ricchi (o relativamente ricchi) e paesi poveri costituirà sempre un incentivo all’emigrazione. Ma proprio per questo è necessario strutturare economicamente il fenomeno.
In Italia il nostro welfare costituisce una attrazione considerevole; ma non è inesauribile, e soprattutto deve essere alimentato con il lavoro, sulla base dell’industrializzazione e dello sviluppo scientifico ed economico. Questa alimentazione ha un notevole costo che pesa, con la tassazione, sulle spalle degli italiani, ed estendere il welfare rapidamente a centinaia di migliaia di nuovi arrivati costituisce un investimento vantaggioso per tutti se i nuovi arrivati (ed i nativi che non si approfittano dei vari redditi di cittadinanza, quando possono lavorare o cercare lavoro) contribuiscono con un lavoro regolare; un costo che invece può divenire insostenibile, a lungo andare, se i nuovi arrivati per diversi motivi non entrano nel ciclo produttivo.
La posizione che vorrebbe l’accoglienza incondizionata, focalizzandosi sul momento dell’entrata, ha trascurato i problemi successivi patiti da chi, una volta nel nostro Paese, entra a far parte dei circuiti di sfruttamento (sistema paraschiavistico, contratti di lavoro fasulli, lavori in nero e senza assicurazione, racket della prostituzione) e generati da chi entra nei circuiti della devianza (attività criminali legate allo spaccio, occupazioni abusive ).
Ne fa fede la situazione in cui versano tante periferie, dove una criminalità parallela a quella autoctona è costituita da immigrati. Il fatto che adesso i cittadini si mobilitino contro l’insicurezza e si comincino a contrastare i fenomeni di devianza rivela che l’accusa di “imprenditoria della paura”, rivolta non tanto agli avversari politici, ma anche a chi manifestava perplessità o contrarietà alla immigrazione indiscriminata, era semplicistica e piena di spirito derisorio mal fondato. Non è questione di “paura”, quanto di preoccupazione per le tante situazioni di insicurezza e degrado.
Nel già lontano 1998 Marzio Barbagli – docente universitario e deputato del PDS – nel suo saggio “Immigrazione e criminalità in Italia” aveva prospettato il contributo alla devianza da parte degli immigrati. Un libro che gli procurò disappunto da parte dei militanti di Bologna per aver evidenziato questa tematica. Oltre al ricorso al “cordone sanitario” nei suoi confronti, è da rilevare il tentativo del partito di tacere aspetti della realtà, qualora questi aspetti contrastino con la versione ufficiale, diffusa come rassicurante.
Nella dicotomia apertura / chiusura, dovrebbe essere fuori discussione la scelta dell’inclusione, ma ciò non significa apertura incontrollata. Non significa subire passivamente il fenomeno.
Per quanto riguarda il ruolo dei partiti, questi sono stati carenti nel far comprendere sia i vantaggi dell’immigrazione, sia i rischi che la mancanza di una apposita politica avrebbe comportato. E soprattutto, non hanno evidenziato la necessità di investimenti per l’attivazione di politiche concrete, quali l’inserimento nel mondo lavorativo, l’opera di mediazione culturale, l’insegnamento linguistico, l’esposizione delle nostre leggi e ordinamenti, l’insediamento abitativo, e anche l’approntamento di luoghi di pena per i reati rilevanti.
Lo Stato si è dimostrato remissivo: uno Stato che subisce fenomeni di tale gigantesca portata non viene ritenuto affidabile da buona parte dei cittadini.
E uno Stato che si prefiggesse una accoglienza continua si assumerebbe un compito insostenibile, se svolto da solo. Essendo le migrazioni un fenomeno strutturale, il problema più rilevante è costituito dall’immigrazione clandestina e dai flussi incontrollati. Se il controllo dei flussi di entrata è di difficile attuazione, rimane la strada del disincentivo: i flussi devono essere scoraggiati. Soluzione anch’essa non facile, che a prima vista non piace ma che va tenuta presente ed elaborata: varie modalità sono state proposte, troppo lungo menzionarle ora. Rimane valida l’opzione di favorire lo sviluppo economico dei paesi più svantaggiati: è un compito perenne, che può essere intrapreso solo collettivamente, insieme con altri Stati.
Il ruolo dello Stato rimane indispensabile. Per la sinistra, lo Stato è sempre stato ideologicamente e culturalmente una entità di riferimento, e stupisce che sia stato quasi accantonato a favore della “bontà”. Si è fatto appello ai buoni propositi, al “buonismo” come spesso definito. ”Io rivendico di essere buonista, perché il contrario è negativo, è il cattivismo”, secondo l’insulsa retorica di Gustavo Zagrebelski (La “Repubblica delle Idee”. Ilaria Venturi, La Repubblica dell’8/06/02019).
L’America ha conosciuto per decenni una immigrazione massiccia: è stata possibile per gli immensi spazi a disposizione dei nuovi arrivati e per il bisogno di manodopera, ed ha consentito uno sviluppo tecnologico ed economico rapido: ma non indolore, anzi con prezzi altissimi, considerando, oltre alla sofferenza di chi ha lasciato la propria terra, la quasi distruzione della componente etnica nativa.
E comunque gli USA, oltre agli imponenti flussi provenienti dall’esterno, conobbero spostamenti interni massicci e problematici, che richiesero investimenti economici e in ricerca sociale. L’esempio più famoso è rappresentato dalla Scuola di Chicago, che operò negli anni ’20 del 900. Chicago, nodo ferroviario, era un paese di 4500 abitanti che in 40 anni raggiunse la dimensione di 4 milioni e mezzo di presenze. La Scuola nacque per studiare gli effetti degli spostamenti di popolazione proveniente per lo più dalle zone rurali – con il celebre fenomeno degli hobos, gli “homeless man”, i senza tetto in continuo spostamento lungo le linee ferroviarie – e per trovare soluzioni ai problemi abitativi, ai conflitti tra gruppi sociali, all’ emarginazione e alla criminalità.
Da ciò dovrebbe essere chiaro che le migrazioni richiedono politiche attive e onerose, monitoraggio continuo e non tanto ricorso ai buoni sentimenti, alle dichiarazioni di superiorità morale e agli scontri tra suprematismi.
Ma è poi condivisibile il richiamo alla superiorità morale, così come è stato diffuso? Cerchiamo di dare uno sguardo etico.