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26 Aprile 2025Torno sulla questione candidatura, a dir poco in bilico, di Alessio Vianello a Sindaco di Venezia. Mi riferirò alle difficoltà apparentemente insormontabili a concretizzarla, per il potere di interdizione che la partitocrazia attuale ha ancora nei confronti delle autocandidature. E mi soffermerò a sottolineare quanto questo potere risulti spropositato e direi piuttosto scandaloso a fronte della qualità di chi lo detiene oggi, a prescindere dalla cromatura politica del detentore, perché il dato è generalizzato.
La vicenda di Vianello rappresenta perfettamente la situazione di giungla politico sociale in cui ci si trova quando – hai visto mai? – qualcuno, lui, Alessio, in questo caso, mettendosi a disposizione di una città obiettivamente con molte situazioni critiche, ha delle cose da dire e da proporre. Nuove al punto giusto, coinvolgenti e non prive di una loro radicalità, basate su analisi che nel suo caso si possono anche dire ‘scientifiche’, maturate con un lavoro d’equipe. E possiede la personalità giusta nei confronti di quello che dovrebbe essere l’interlocutore principale, la società civile*.
In democrazia, presa alla lettera, dovrebbe essere così. Rapporto dritto lineare e trasparente con chi ti deve votare e scegliere per ciò che proponi e rapporto semmai con la rappresentanza non direttamente politica dei corpi intermedi sociali, culturali ed economici. Perché quella direttamente politica è coperta dallo stesso che fa la proposta e che chiede a sua volta rappresentanza e legittimazione.
Non equivochiamo. C’è chi potrebbe accostare questo schema al populismo, assomigliando a quel contatto magnetico e diretto con le cosiddette masse che in Italia ha avuto esempi concreti recenti e più remoti, d’attualità in questi giorni. La differenza è palpabile. Nel populismo non ci sono progetti, programmi, obiettivi praticabili. E se ci sono, ci sono per buttare fumo negli occhi, hanno come carattere la pura demagogia, all’insegna del plagio delle masse (“vuoi tu, qui, adesso, subito il paradiso terrestre?” “Siiiiii”)
Questa quaterna, credibilità sociale, competenza, progetto praticabile e verificabile offerto alla cittadinanza è dunque altra cosa diametralmente opposta al populismo e dovrebbe essere la normale prassi democratica.
E invece no.
Nella giungla la voce più grossa la fanno ancora e sempre i partiti. I quali sono circondati da un alone di intangibilità che li rende di un’altra sostanza rispetto a tutto il resto del reale. Sembra che esistano come divinità senza tempo. Per cui se Alessio Vianello vuole avere chance, per come appaiono le cose, non ne può fare a meno, lì deve passare. Scegliendosi prima di tutto in anticipo il campo in cui stare, a prescindere dal suo programma. E fare anticamera col cappello in mano.
Questi non sono più i partiti della prima Repubblica in cui sono cresciuto, in cui persino i minori, PRI, PSDI, PLI, svolgevano il loro ruolo, con limiti ideologici vistosi, ma con un invidiabile professionalità e capacità di formazione. Erano delle istituzioni “in grisaglia”, di cui l’elettore poteva in qualche modo fidarsi. E che a un certo punto già negli anni ’70, quantomeno nel campo di sinistra, hanno avuto anche il coraggio di aprirsi a figure di sindaci civici, in un rapporto piuttosto fecondo anche se ben ingabbiato nello schema. Insomma, era un altro mondo, con la sola responsabilità storica di aver, senza volerlo, partorito i partiti di oggi. Ma questo attuale mondo nanopartitocratico è di una mediocrità e di un infantilismo così penoso, che risulta inaccettabile anche solo l’idea di stare in anticamera con il cappello in mano, cosa che accettavi precedentemente come normale, ma con interlocutori di un’altra stoffa.
Con una momentanea digressione e con qualche buon esempio vorrei perciò far riflettere se tutto ciò che dico è un’esagerazione, oppure ha fondamento, perché non è mio costume spararle a vanvera.
“E’ più forte di loro”, commentava sul Corriere della Sera di qualche giorno fa Massimo Gramellini a proposito delle stucchevoli schermaglie sull’eredità politiche di Papa Francesco, una collettiva prevedibile esercitazione di pochezza di spirito, in cui, come un riflesso pavloviano, si è subito solertemente applicata la classetta politica italiana di maggioranza e di opposizione. Quella che non sa trattenersi dal “dichiaratese” di pura propaganda, in cui si cela il nulla da dire, inversamente proprzionale al tanto, al troppo da sproloquiare.
“Più forte di loro” è tuttavia un modus facilmente rinvenibile a tutte le scale politico territoriali. E ci si può qui riferire ad un episodietto illuminante accaduto nei giorni scorsi e che dà uno squarcio sul livello delle fazioni politiche, e non importa di che segno, vale per tutti. Illuminante perché getta una luce di contrasto per capire meglio il contesto generale in cui si è costretti a giocare.
Accade che Il vicesindaco attuale di Venezia, tal Tomaello, ironizzi pubblicamente, anzi direi satirizzi, che è molto peggio, sulla gradinata di curva, sede degli ultras, in corso di costruzione con soldi pubblici nello stadio Euganeo del Padova Calcio, definendola inguardabile (carino no?). Sbeffeggia sguaiatamente, come un Plauto qualsiasi, l’amministrazione comunale padovana di centro sinistra che ha in carico il progetto della curva, solo allo scopo di propagandare la ‘ben altra’ opera, il nuovo stadio veneziano, chiamato ‘Bosco dello Sport’. Quello si una vera figata. In ogni caso a differenza dell’altra già in costruzione, tutto interamente ancora da realizzare.
Verrebbe veramente da dire a Tomaello: “ma statti zitto. Sei il vicesindaco e non di un paesello, rappresenti un’istituzione, dai dignità al tuo ruolo, abituati a rispettare le istituzioni vicine, in questo caso di un comune non qualsiasi, una capitale regionale de facto almeno pari alla tua città, secondo il tuo sindaco addirittura facente parte della stessa metropoli, te lo ricordi?”. Sottolineo che non ho un giudizio pregiudizialmente negativo sullo Stadio Bosco dello Sport, e che Tomaello, per quel po’ che ho potuto conoscerlo, mi è anche simpatico, me par un bravo fio. Ma evidentemente non si rende conto nemmeno lui di quanto così si squalifica, questo è drammatico (drammatico anche che i cittadini stessi non se ne rendano conto e forse ciò dice tutto sulla sua legittimazione, purtroppo).
Perché, che luogo sceglie per la sua generosa critica? Ma Facebook, neppure a dirlo. Ci dice candidamente Tomaello sul Gazzettino “ma si, questo post è nato un po’ ridendo perché, quando ho visto che avevano ripresentato il progetto della curva dello stadio Euganeo, con degli amici padovani ci siamo scambiati qualche battuta”. ‘Ma sì’, dai, la politica cittadina la si fa ridendo e irridendo tra amici, come se si fosse sempre in un ‘bacaro tour’. Per far ciccare gli altri, si potrebbe dire. Politica fatta con messaggini da Whatsapp, scritti al volo al semaforo prima del verde in sella alla bici, per preparare il post finale in Facebook, magari non preordinato, venuto spontaneo con il montare delle risate. Ma ve lo vedete, a proposito di ciò che dicevo sui partiti e sul personale della Prima Repubblica, ma ve lo vedete Gianni Pellicani ‘migliorista’ del PCI, mezzo secolo fa decennale vicesindaco di Venezia come oggi lo è Tomaello (sob!) a comportarsi così con i suoi pari grado padovani? Al livello di un bar sport paesano è il vicesindaco attuale della nostra città, rappresentante di un partito come la Lega che si pone pesantemente e arrogantemente come collettore di consenso in tutta la Regione Veneto e sul cui corpo, a proposito di ciò che si diceva sul potere di interdizione, deve passare chiunque abbia qualcosa da dire o da proporre.
Naturalmente nel trabocchetto dolcetto scherzetto di Tomaello sono subito cascati quelli del PD di Venezia e Padova, abituati del resto allo stesso tipo di logica rissosa basso propagandistica – e quindi stupiti solo di facciata – che hanno perso a loro volta l’occasione di non pronunciare verbo, tanto il verbo dell’altro si squalificava da sé. Potevano non ragionar di lui, di Tomaello cioè, guardando e passando, ma non l’hanno fatto perché anche per loro ‘è più forte di loro’. Permanentemente in sindrome di Peter Pan, anche quelli del PD fan politica giocando ai Ragazzi della via Pal, che pure una serietà d’intenti avevano. E nel pollaio ci si sono ficcati subito con gusto, con il gne gne, tiè tiè, dei mali di Venezia, definita città allo sbando, altro slogan sproporzionato e meramente propagandistico, da sventolare davanti ai nemici di banda. A bullismo si risponde con bullismo, altroché, adolescenti sono loro e adolescenti siamo noi, non scherzeremo mica.
Tutto ciò per dire che questo è il livello, ragazzi.
E attraverso questa cruna d’ago nanopartitocratica chi ha qualità una o due spanne più in alto (come Alessio Vianello, certo – non ho pudore a dirlo, conoscendolo da decenni -) dovrebbe passare? E del resto questo eterno potere d’interdizione che i partiti di oggi ereditano per inerzia da quelli di ieri, proviene dal voto di appartenenza che la pigrizia dei cittadini assegna ancora loro, perché la leggenda dei partiti come cuore pulsante della democrazia vuole essere creduta da chi nella vita di ogni giorno ha altro di meglio da fare (in realtà). Se non avessero questa certezza o semi certezza di una pesca a strascico senza alcun merito, i capetti di oggi forse si acconcerebbero a più miti consigli e il profilo civico dei candidati sarebbe la regola prevalente. E non basterebbe, perché i paraocchi e l’orgoglio del poterino che detengono continuerebbe a obnubilarli.
Non ho ricette, mi cascano le braccia, monta un po’ di rabbia repressa. Se c’è chi vede tutto ciò e prova la stessa mia rabbia unisca le energie per una prova di forza non emotiva, ma lucida e razionale, il caso Vianello è un buon test al riguardo e sta anche a lui dimostrare l’orgoglio di non soggiacere ad una logica umiliante. Non c’è nulla da perdere. La nostra testata si offre sempre come spazio libero, ma non ha alcun potere, può far solo da collettore di opinioni a favore. Molto dipende da Alessio. Vorrei dirgli: non stare a questo gioco, fai il tuo, costruendoti un’autonomia, di cui fare il punto di forza principale. Morale, prima di tutto, poi il resto può venire da sé, giocando tutte le carte in mano. Che non sono poi così poche. Se giocate bene, con la giusta tempistica, le battaglie si possono vincere.
*Ci tengo a questo ricordo perché fissa il carattere dell’uomo. Chissà se Alessio ne ha anche lui memoria, son passati più di 30 anni. Nonostante i circa 16 anni di differenza tra noi due, nei primi anni Novanta del secolo scorso ebbi occasione, quasi come un fratello maggiore, meglio come uno zio (ma mi trattava con semplicità alla pari), di fare con lui un viaggio in vagone letto per Roma nella stessa cabina, le frecce non esistevano ancora e per trovarsi nella capitale alla mattina non c’era alternativa. Ci recavamo come delegati all’assemblea di Alleanza Democratica, uno dei tanti aborti politici, ben riusciti però, che l’area liberal democratica ha effettuato nei decenni dal dopoguerra in poi, più effimeri di quelli precedenti che pur avevano avuto a che fare col fascismo. (di AD Ferdinando Adornato e Willer Bordon erano i leader). Non ricordo se fossi stato io a proporlo oppure come più probabile si era autoproposto con il piglio di chi sa già cosa vuole. In ogni caso viaggiando con lui e osservandolo pensavo: ma guarda un po’ come in epoca di estremismi emotivi, un posato giovanotto non ha remore a stare insieme ad un maturo quarantenne (tale mi sentivo a quell’età, fa ridere ma è così) in un movimento che faceva fede di razionalità, disincantato pragmatismo, post sinistrismo, ma anche molto di sano laicismo. Che Alessio mi pareva accettare senza discussioni, pur provenendo da una formazione cattolica di stampo chiaramente democratico e post conciliare, impostazione che a me pareva coerente, ma altrettanto rara e del tutto a tipica per uno della sua età, visto che i cattolici democratici allora avevano l’età del prof. Scoppola o dei sindcalisti della CISL. Ma non aveva casacche politiche e questa sua estraneità ad appartenere nettamente sarebbe stato l’imprinting costante, oggi una evidente virtù per tutto ciò che si è detto nell’editoriale. Gli leggevo addosso determinazione e una certa ben sostenuta ambizione, che poi ha incanalato altrove nella brillante ascesa professionale. Le ristrettezze della politica, che in quel lontano anno già sperimentava, non lo turbavano ancora come lo avrebbero frenato in seguito, anche avendo a che fare con un satrapo come Massimo Cacciari. Nel tempo l’ho poi intercettato solo a strappi con molte pause, ma il carattere di autonomia di pensiero, di profondità nella competenza, di moderazione nelle relazioni e di accettazione solo di compromessi costruttivi e non di mero accomodamento, c’erano già tutti. E mi pare si mantengano.
Per quel che può servire, non molto, ma neanche nulla, queste le mie referenze, che dovrebbero garantire chi pretende un salto di qualità nella politica cittadina.
Un uomo, un programma, il binomio della Politica con la P, qui c’è.