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31 Ottobre 2024Patria, Nazione, Identità: un lessico pregnante. Che idea e immagine di società sottendono quest’uso di parole? Dall’istituzione di un assessorato “alle Politiche per la Cultura e l’Identità Veneta” al programma di educazione civica proposto dal ministro “dell’Istruzione e del Merito” Giuseppe Valditara.
“Nostra patria è il mondo intero” cantavamo ancora negli anni Novanta quando un gruppo, ispirato da un sedicente “Veneto Serenissimo Governo”, composto da fanatici travestiti da simpatici burloni, assaltò il campanile di San Marco, l’8 maggio 1997. Nello stesso tempo, in modo apparentemente più serio, aderenti alla Lega Nord guardavano alle piccole patrie del territorio e nel 2000 il governo di Giancarlo Galan modificò il nome dell’assessorato “alla Cultura” in assessorato “alle Politiche per la Cultura e l’Identità Veneta” con a capo il leghista Ermanno Serrajotto. Ancor prima, nel 1998, la Giunta di Galan aveva fatto approvare al Consiglio una proposta di legge regionale per attribuire alla regione Veneto forme e condizioni particolari di autonomia, legge poi dichiarata inammissibile da una sentenza della Corte Costituzionale nel novembre del 2000. Casualmente, in questi giorni mi è tornato in mano il libro/quaderno n.4 dell’osservatorio veneto a cura di Piero Brunello e Luca Pes che contiene gli atti di un convegno promosso da storiAmestre, il 31marzo 2001, dal titolo e sottotitolo significativi: “Identici a chi? Contro l’assessorato alle politiche per la cultura e l’identità veneta”. Si ponevano alcune domande: “Che senso ha istituire un assessorato che istituzionalmente promuove una identità? Che cosa c’è da aspettarsi da politiche basate sulla Identità Veneta? Quale idea di democrazia e di cittadinanza comportano?” Poiché i documenti programmatici dell’assessore Serrajotto prevedevano iniziative di ricerca e divulgazione della storia locale, al convegno promosso da storiAmestre furono invitati alcuni storici, in particolare chi si era occupato di storia del territorio e di fonti orali. Apparve che il crinale, che separava lo studio rigoroso condotto su fonti dichiarate e accessibili per tracciare storie locali dal tentativo di usare la storia per piegarla alle esigenze di certa politica, fosse marcato. La costruzione, infatti, di un modello identitario, proposto dalle istituzioni, appariva il risultato della volontà di creare separatezza, generata anche dalla paura del “diverso”, che può confluire in un razzismo strisciante: significativo che accanto all’assessorato “alle politiche alla cultura e identità veneta” allora se ne costituisse uno anche “alle politiche della sicurezza e dei flussi migratori”. Anche il mondo accademico, in quel periodo, precisò, in una lettera del 5 maggio 2001, indirizzata ai componenti del Consiglio direttivo del Centro Interuniversitario di studi veneti, ai Rettori delle Università consorziate, al Presidente dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, che “L’arduo e problematico concetto di identità e a maggior ragione le politiche che dichiarano di volerla promuovere in un ambito territoriale sono infatti pericolosamente esposti al rischio di debordare in pratiche etniche di separazione e contrapposizione”. La firmavano 30 docenti, in gran parte dell’Università di Ca’ Foscari di Venezia, ma anche di Padova, Verona, Trento, Calabria e Vienna, molti dei quali avevano curato la redazione del volume della “Storia d’Italia ” dell’Einaudi dedicato al Veneto tra Ottocento e Novecento. Poi, dopo alcuni convegni, pubblicazioni, feste su tradizioni locali vere o presunte tali, incontri di tipo gastronomico con la consumazione di prodotti alimentari considerati ” tipici” – anche se provenienti dalle Americhe o dall’Asia e impiantate secoli fa -, tutto è svaporato e l’identità si è concentrata sulla politica dell’attuale presidente, Luca Zaia, mirata alla conquista di un’autonomia politica e finanziaria. Ma il problema rimane soprattutto verso quelle persone immigrate che hanno ottenuto la cittadinanza e che provengono da culture e appartenenze diverse. Che il Veneto abbia bisogno del loro lavoro è indiscutibile: ce lo ricordano gli imprenditori affamati di braccia e intelligenze, gli ospedali e il lavoro di cura. Ma la politica praticata finora si è spesa a marcare le differenze, ad allontanare sempre più le comunità straniere che tendono a radicalizzarsi, potendo generare pericolosi conflitti.
Vogliamo costruire una comunità che ascolta e dialoga con “il diverso” o vogliamo ancora mantenere la separatezza che il concetto di identità veneta provoca? Posto che tutti, cittadini e cittadine, devono assumere come regola del convivere la Costituzione, che va conosciuta e praticata, e quindi con i diritti/doveri che conseguono, la scuola risulta ancora una palestra importante per far dialogare le diverse appartenenze. In particolare l’educazione civica può diventare uno spazio utile. Ma funziona nel modo in cui ce la propone l’attuale ministro “dell’Istruzione e del Merito” Giuseppe Valditara? Dalle linee guida leggiamo che: “L’educazione civica deve contribuire ad una formazione volta a favorire l’inclusione degli alunni stranieri nella scuola italiana. L’insegnamento dell’educazione civica può supportare gli insegnanti nel lavoro dell’integrazione, producendo nei suoi esiti coesione civica e senso della comunità, evitando che anche in Italia si verifichino fenomeni di ghettizzazione urbana e sociale. […]
Le Linee Guida per l’insegnamento dell’educazione civica “offrono una cornice efficace entro la quale poter inquadrare temi e obiettivi di apprendimento coerenti con quel sentimento di appartenenza che deriva dall’esperienza umana e sociale del nascere, crescere e convivere in un Paese chiamato Italia. […] Inoltre, l’insegnamento dell’educazione civica aiuta gli studenti a capire la storia intera del Paese, riconoscendola nella ricchezza delle diversità dei singoli territori e valorizzando le varie eccellenze produttive che costituiscono il “Made in Italy””.
Ancora si legge nelle competenze e obiettivi di apprendimento, esposti in modo dettagliato, nel secondo ciclo di istruzione: “Conoscere il significato della appartenenza ad una comunità, locale e nazionale. Individuare, anche con riferimento all’esperienza personale, simboli e fattori che contribuiscono ad alimentare il senso di appartenenza alla comunità locale e alla comunità nazionale. Ricostruire il percorso storico del formarsi della identità della nazione italiana, valorizzando anche la storia delle diverse comunità territoriali. Approfondire il concetto di Patria nelle fonti costituzionali; comprenderne le relazioni con i concetti di doveri e responsabilità”. Sempre tenendo ferma la visione dei diritti/doveri che la nostra Costituzione propone/impone a tutti i cittadini, maschi e femmine, manca una visione più larga ed estesa delle componenti culturali che investono popoli con provenienze diverse, storie diverse, linguaggi diversi, cioè manca una visione del mondo aperta alle diversità accolte con curiosità, interesse, anche spirito critico, per costruire una comunità articolata e rispettosa delle diversità, per costruire quella che si può definire Zivilisation, mentre persistono le Kultur prodotte dai diversi popoli. Vuol dire vincere la paura del diverso, insegnando in modo corretto il principale – ancora – strumento di comunicazione che è il linguaggio: proporre corsi d’italiano per donne e uomini, proporre corsi di inglese e -perché no – di cinese ai giovani, spostando lo studio dei dialetti – linguaggi locali- presso le Università. Vuol dire impegnare energie attraverso un piano efficace di integrazione che investa tutti i settori della vita sociale. Compito complicato, difficile su cui occorrerebbe investire soprattutto nella formazione dei docenti e sulla scuola, mentre al contrario si tagliano numeri e risorse. Vuol dire costruire una nuova Weltanschauung che sappia reinventare il mondo, questo mondo che sta cambiando, anche attraverso gli inarrestabili flussi migratori.