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26 Marzo 2023OPenso che uno dei mali del nostro tempo stia in una gestione approssimativa, improvvisata e improbabile del presente e dell’esistente, sganciata da una progettazione del futuro, non più sorretta dalle ideologie che sono morte e sepolte dal lontano 1989 ma persino da ideali e addirittura da idee. Siamo deprivati di idee su come costruire il nostro futuro, della progettualità che ci spinge verso un oltre e un altro mondo possibile. In una parola siamo orfani di utopie.
Già! Cos’è l’utopia? Credo che noi tutti di una certa età siamo cresciuti credendo in qualche ideologia e utopia. Ma oggi sembra un termine obsoleto! L’idea venne ipotizzata da Platone nella Repubblica ma il nome a quest’idea è stato assegnato da Tommaso Moro nel suo testo Utopia. L’etimologia del nome può essere interpretato sia come Outopos (non luogo) che come eutopos (bel luogo). Utopia è, quindi, un luogo che non esiste ma è anche il luogo della virtù, dove gli uomini possano vivere felici. Ciò che è buono ma che “non c’è” o, almeno, “non c’è ancora”. Il non essere che potrebbe essere e che apre alla speranza che qualcosa di migliore potrebbe esserci e che ci sarà, figlio delle aspirazioni dell’umanità verso il bene, verso una vita beata fondata sul bene, sulla giustizia, e sulla fratellanza e la comunione dei beni. Utopia è l’immaginazione dell’uomo consapevole dei mali del suo tempo e delle distorsioni del sistema economico e di potere, irrazionale e ingiusto e, quindi, nasce da un confronto tra un’idea di giustizia e la realtà guidata dall’ingiustizia, nasce dal bisogno di spezzare i legami con l’ordine esistente e la realtà che non piace. Possiede quindi una forza eversiva di rottura e trasformazione: si denuncia il mondo come non deve essere e preconizza il mondo come si vorrebbe che fosse. Categoria della creatività umana che tende sempre verso un oltre o verso l’altro. E’ la mente che si infutura nella persistente progettazione di una realtà altra. L’uomo è un essere che si auto-progetta e si protende verso un voler essere e sperimenta la sua libertà di auto-creazione. Che non è solo teorica ma assume valore nella prassi, in progetti che, per quanto non immediatamente realizzabili, esprimono i bisogni reali della società. E’ un luogo che non rientra nella categoria dell’impossibile ma è difficile che possa esistere, non esiste ancora ma è un mondo possibile. Si idealizza una società che potrebbe essere realizzata in un futuro di giustizia, libertà e felicità.
Nella narrazione filosofico-letteraria l’antesignano è appunto Platone che nella sua Repubblica delinea una società caratterizzata dalla comunanza dei beni e da un sostanziale assorbimento dell’individuo nella collettività. Facendo un bel salto di secoli troviamo i progetti di Tommaso Moro che nel titolo della sua opera Utopia (1516) introduce il termine ed è un testo archetipico e quello di Tommaso Campanella con La Città del sole (1602). Questi ci fanno intravedere isole o città possibili, proprio nel periodo rinascimentale o post rinascimentale, quando il concetto di perfezione portava all’idealizzazione di città ideali anche dal punto di vista architettonico e urbanistico, città progettate a tavolino fondate su categorie e canoni estetici di simmetria, equilibrio e armonia, valori che sembravano imprescindibili.
E’ anche vero che tali modelli rischiavano di volgersi nel loro contrario, in una visione in cui l’altra faccia della medaglia era l’annullamento dell’individuo e della sua libertà personale in nome della comunanza e comunione di ogni cosa nell’interesse della collettività.
E, infine, pensiamo come nella narrativa del ‘900 abbiamo assistito solamente al nascere di romanzi distopici, figli dei regimi totalitari che toglievano spazio a idee ottimistiche e a speranze di un futuro migliore.
Spostandoci sul piano dei progetti politici credo che i primi utopisti fossero gli illuministi che in tempi di regimi assoluti preconizzarono, teorizzarono e portarono avanti battaglie e rivoluzioni a difesa delle libertà individuali, dei diritti, dell’uguaglianza e della democrazia. Pensiamo, tra tutti, a Lo spirito delle leggi di Montesquieu del 1748. In esso la teorizzazione della separazione dei poteri in tempi di potere assoluto, di dispotismo e accentramento dei poteri sembrava più che utopia e, invece, da 3 secoli è diventato il vangelo imprescindibile delle nostre democrazie. E che dire del visionario Giuseppe Mazzini che nel 1830 aveva immaginato un’Italia libera, indipendente, democratica e repubblicana, in un periodo in cui ancora era frammentata, dipendente da potenze straniere e con governi assoluti. Ben 116 anni prima di quando il suo sogno si è realizzato nel 1946 con la fine della monarchia e la scelta della Repubblica e nel ‘48 con la nostra Carta costituzionale. Per non parlare della madre di tutte le utopie, il sogno prima dei “socialisti utopisti”, appunto, e poi il progetto supremo del comunismo di Marx ed Engels (Il manifesto del partito comunista,1848) che, realizzatosi 70 anni dopo (1917) nell’ultima società in cui si sarebbe dovuto realizzare, l’Impero zarista, si è scontrato con la realtà, rovesciandosi nel suo contrario, determinando quella fine delle speranze in un mondo utopico anche se scientificamente progettato, che ha gettato l’umanità in un senso di sconforto perché privata dell’ultima utopia possibile di cambiamento della struttura e della sovrastruttura. E, per finire questa veloce e affrettata carrellata, altra e ultima utopia è stato il ‘68 in cui la carica di contestazione contro il potere dominante e la forza eversiva delle idee anti-capitaliste, anti-borghesi, di libertà, giustizia e pacifismo era stata dirompente ma poi sappiamo come è andata.
Ecco da quanto tempo l’uomo non conosce più “utopie” o meglio progettualità di ampio respiro che riesca a pensare in grande? Siamo deprivati di idee, si annaspa nel cercare soluzioni improbabili a problemi che non riusciamo a gestire, vedi l’immigrazione. Non riusciamo ad avere una visione globale e olistica del mondo e dei fenomeni. Il presente non ci soddisfa ma non si riesce ad intravedere un altro mondo possibile, a mettere le fondamenta ideali per quel mondo che non c’è ma a cui aspiriamo! E non il mondo della conservazione e di battaglie di retroguardia che ci propinano questi ultimi governi ma il mondo fatto di giustizia e uguaglianza da coniugare con le libertà dei singoli e dei diritti delle minoranze.
D’accordo, siamo orfani di utopie, abbiamo liquidato le ideologie, siamo stati privati di ideali ma abbiamo auspicato almeno che delle idee fondanti fossero la guida dell’agire politico. Già Machiavelli ci ha insegnato che non può esistere prassi politica senza teoria. Ma in questi ultimi anni i partiti della sinistra hanno derogato anche su questo con politiche troppo timide, poco coraggiose su ogni fronte, sia economico, sociale, fiscale, e dei diritti. E il partito di sinistra, con i suoi vari nomi che si sono succeduti, dal PCI al PD, soprattutto dopo il crollo del muro e dalla fine della guerra fredda ha preso giustamente e, sottolineo, fortunatamente, le distanze da quell’utopia rivelatasi nei decenni una grandiosa distopia da rigettare ma non è riuscito, però, a contrapporvi nuovi modelli politici, sociali ed economici alternativi e soprattutto ad individuare nuove classi sociali da rappresentare, a cui dar voce e a cui tutelare gli interessi.
Chissà! Oggi stiamo, forse, assistendo, grazie al nuovo corso appena avviato nel PD ad un tentativo di recupero di qualche prezioso sedimento depositato nei cascami di quelle idee o, meglio di quegli ideali che pur sempre sono rimasti presenti e vivi nelle coscienze di tutti noi e adesso sembrano riaffiorati con convinzione nel nuovo percorso intrapreso del partito.
Possiamo solo augurarci che questa possa essere la direzione.