“RENZISMO” A VENEZIA, UNA STRADA TORTUOSA
3 Aprile 2015Il Paese di Azzeccagarbugli
15 Aprile 2015Forse Bersani & co. si sono confusi. L’altro giorno pensavano di essere protagonisti di una partita e non di un partito, di un torneo di biliardo alla goriziana (dove ciò che conta è di rendere difficile il gioco dell’avversario) e non di una direzione nazionale nella quale dovrebbe valere la più elementare delle regole democratiche: se si vota, la minoranza si adegua alla maggioranza, sic et simpliciter. Ed invece quelli che ancora si ostinano a considerare il partito come una ditta (a proposito: che sia il caso, dopo aver letto dell’ennesima corruttela avente per protagonista una cooperativa rossa, di sottoporre ad generale risciacquio certo vocabolario?) anziché assumersi la responsabilità di votare chiaramente contro l’Italicum hanno scelto la forma di voto più strumentale(e ipocrita) che ci sia: il non voto. Uno stratagemma di cui chiunque abbia un minimo di esperienza politica capisce la valenza: un modo per lasciarsi ogni via aperta anche quella del tana libera tutti come dicevamo da ragazzini. E, ovviamente, il tutto accompagnato dal solito profluvio di polemiche invero degne di un “bar sport” al termine di una partita scapoli vs. ammogliati. Ma che sta accadendo dunque al PD? Quali le ragioni vere, ma soprattutto, l’obiettivo che spingono (come è costume da sempre di una certa sinistra) una minoranza (vieppiu frammentata, divisa e sempre più …minoritaria) a sovvertire qualunque regola democratica, anche la più banale come quella che vorrebbe i risultati congressuali essere oggetto di grande rispetto (almeno fino a quelli successivi)? Me ne vengono in mente due.
Tafazzi è tra noi
Intanto la parte minoritaria del partito (che in massima parte – e non è un caso – coincide con quanti vengono al PD dal PCI prima e dai DS poi) pare ancora soffrire della sindrome Tafazzi, uno dei (pochi a dir la verità) riusciti personaggi del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Lo ricordate? Quell’omino di nero vestito che si percuoteva la dove non batte (quasi) mai il sole ma dicon il Viagra faccia miracoli. Ebbene: in una parte del PD anche la realtà diventa dubbio, voglia di una vendetta fine a se stessa, solo per dimostrare agli occhi propri e altrui la consistenza di una forza muscolare e non certo programmatico-propositiva che se tale fosse stata avrebbe portato ad un risultato congressuale diverso. In questa visione manichea gli avversari non sono coloro che militano in uno schieramento ad verso appunto ma quanti convivono nella stessa ditta. Pare che agli occhi della minoranza alcuni dati oggettivi (un congresso vinto a larghissima maggioranza, un consenso elettorale che ha toccato il 41%, tutti i sondaggi in crescita) diventino una sorta di meta-fisica. È la classica sindrome della sinistra: cercare di ribaltare le sconfitte in vittorie scordando che spessissimo anziché in vittorie le sconfitte, per la sinistra, si sono tramutate in disfatte memorabili (raggiungendo l’apice con quel bersaniano siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto). Tutto ciò è la reazione di un apparato (e nel PCI prima e nel PD poi essere nell’apparato significa tutto: lavoro, potere, tranquillità economica) che oggi è impegnato nella lotta per la sua stessa sopravvivenza. E che per sopravvivere è disposto a tutto. Pochi ricordano che la storia politica di Renzi è sempre stata di lotta contro l’apparato. Giovanissimo presidente della Provincia di Firenze decide, contro il suo partito, di concorrere alle primarie per diventare sindaco del capoluogo toscano. Le vince e poi , al ballottaggio, conquista le elezioni vere e proprie successivamente (non dimentichiamolo!) assistendo più che compiaciuto alla vittoria al primo turno di quel Dario Nardella che gli è stato vicesindaco.
Uno scontro generazionale
Ma è solo questo? No, le ragioni della durissima battaglia interna e intorno al PD non sono nobilissime ed opposte maniere di intendere il partito, l’amministrazione del Paese e le regole attraverso cui tale azione amministrativa si può esplicare come qualcuno vuol far credere. No: ciò che sta accadendo è semplicemente una lotta generazionale classicamente intesa cioè una lotta parricida dove i figli debbono (metaforicamente s’intende) uccidere i padri se vogliono sopravvivere. E questo i padri lo hanno benissimamente capito. E reagiscono . Come altro intendere, infatti, l’accusa di arroganza rivolta a Matteo Renzi dal padre di tutti gli arroganti, Massimo D’Alema (uno di cui una volta Gino e Michele, quelli di Zelig e de Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, dissero “Ormai Massimo D’Alema è così pieno di sè che sul cruscotto della sua auto ha messo una calamita con la foto di Gesù che lo guarda e la scritta “Papà, non correre”)? E la posizione (pretestuosa almeno agli occhi di chi scrive) di un Bersani contrarissimo ai capilista bloccati proprio lui che, nelle ultime elezioni, impose un centinaio di candidati fedelissimi senza che partecipassero alle primarie e, peggio!, stravolgendo in taluni casi proprio l’ordine delle candidature risultante dalle scelte degli elettori (senza dimenticare alcune altre “dimenticanze” che il buon Giachetti – ma non solo – ha giustamente ricordato durante l’ultima direzione)? Come non definire altrettanto pretestuosa la polemica sulla riforma del senato quando la “Tesi n.4” del programma de L’Ulivo proponeva un Senato trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza con il riconoscimento che tale trasformazione avrebbe reso il Senato diverso dall’ attuale che oggi semplicemente duplica (i poteri) della Camera dei Deputati? Se proprio in ballo ci fosse l’identità di un PD che le minoranze denunciano non essere più di sinistra (ma quando mai il PD doveva essere un partito di sinistra tout court? E chi muove questa accusa finge di dimenticare che è stato proprio Renzi – riuscendo laddove altri “compagni” avevano fallito – a realizzare l’adesione del PD alla grande famiglia del socialismo europeo) perché non votare contro il jobs act anziché ricorrere a tutti gli stratagemmi tipici della prima repubblica? Ed invece no (ad eccezione di Pippo Civati che, diciamolo suvvia, ispira anche un po’ di simpatia con quell’aria da intellettuale incompreso persino a se stesso se si guarda allo specchio). Nemmeno sulla riforma della giustizia (con la doverosa, almeno e sempre agli occhi di chi scrive, introduzione di una chiara responsabilità civile da parte dei magistrati che sbagliano) non è che l’opposizione interna al partito abbia detto chissà cosa. Dunque lo scontro non è tra modi opposti di concepire la politica e il governo (anche se, ovviamente, si cerca di nobilitarlo con questi argomenti). Questo è scontro totalmente generazionale. Da una parte i sessantenni, settantenni che hanno vissuto di politica per decenni. Dall’altro una nuova generazione che ha preso il potere non su delega dei primi, non per concessione delle generazioni precedenti che spesso individuavano (e, probabilmente, vorrebbero individuare) dei “delfini” da manovrare a loro piacimento (i giovani politicamente vecchi di cui è piena la storia politica persino nei più piccoli consigli di quartiere). No: è una generazione che ha cinicamente conquistato il potere combattendo metro per metro con le unghie e coi denti. Ed una volta conquistato il potere ha pure mostrato di saperlo gestire benissimo avendo massimamente imparato proprio la lezione dei predecessori. È questo che agli occhi di Bersani, D’Alema etc. è imperdonabile in Renzi: la sua sicumera (anzi in questo caso: nobile e alta arroganza) nel dire “adesso tocca a noi”. Già, tocca ai quarantenni e cinquantenni provare a rimettere le cose a posto dopo i tanti guasti che le gestioni del potere precedenti hanno combinato in questo Paese senza che i responsabili non solo ne abbiano coscienza ma nemmeno il coraggio di chiedere scusa.