Non abbiamo l’anello al naso
16 Dicembre 2022Liberal Forum
21 Dicembre 2022Fatta l’Italia bisognava fare gli italiani. Ma forse l’Italia non è mai stata fatta né tanto meno gli italiani. La disomogeneità e l’eterogenesi dei fini hanno fatto sì che forse siamo ben lontani dall’aver realizzato appieno quell’obiettivo. Troppe diseguaglianze, troppe disomogeneità, troppi divari, troppe sperequazioni, troppe disparità, economiche, sociali, culturali e di sviluppo tra Nord e Sud di questa povera Italia. Ampi ritardi al Sud nelle infrastrutture e nella qualità nei servizi pubblici erogati, sia dagli enti locali, sia dallo Stato. Che l’Italia sia un Paese “diseguale” è nei fatti.
Il riscatto del Sud deve partire dal Sud. «Ci dobbiamo salvare da soli, metterci in prima fila e crederci perché abbiamo tante carte da giocare». Nella società civile e responsabile del Sud dell’Italia, negli ultimi tempi, sta riprendendo forza la consapevolezza dell’urgenza di rimboccarsi le maniche per tentare di affrontare il nodo irrisolto di uno sviluppo ancora di là da venire per il Mezzogiorno.
Ma facciamo un passo indietro di 160 anni.
Nella Inchiesta in Sicilia del 1876 fatta da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino la questione meridionale emergeva come problema nazionale e sociale e si impose sin da subito all’attenzione della classe politica della neonata Italia: l’estrema povertà delle terre siciliane e di tutto il resto del Sud coltivate con metodi e con conduzione agraria obsoleti, nessuna forma di meccanizzazione dei mezzi di produzione, una società ancora dominata dalla grande proprietà latifondistica, il dramma del lavoro minorile, l’assenza di una classe borghese e di un processo di industrializzazione che potesse far decollare l’economia. E ancora l’analfabetismo, la dialettofonia, l’arretratezza economica, la mafia, l’insofferenza per le tasse che gravavano sui ceti più bassi e per la leva obbligatoria, l’incapacità di governo della classe dirigente locale, un ordinamento fondiario antiquato ed oppressivo per i contadini. Il sistema clientelare e la mentalità individualista, gli abusi della classe baronale che non era disposta a rinunciare ai secolari privilegi, una classe dirigente avvertita come lontana dai problemi dei cittadini, la diffusa corruzione. Il potere intimidatorio, la capacità di influenza e il controllo economico della mafia si incarnavano in uomini di condizione agiata, rispettosi ed autorevoli, capaci di uccidere e far uccidere, di sfregiare e punire, condizionando il mondo del lavoro e l’intero sistema produttivo. Il governo, secondo l’indagine di Franchetti e Sonnino, con i suoi metodi repressivi, aveva cristallizzato questo sistema oppressivo, assicurando l’impunità agli oppressori e impedendo, peraltro, ai siciliani di liberarsene.
All’indomani dell’Unità si provò a combattere il brigantaggio con la Legge Pica del 1863 che portò, secondo i dati ufficiali, alla fucilazione di quasi 5.000 briganti. Le dure condizioni di vita cui erano sottoposti i meridionali diede vita, inoltre, al fenomeno dell’emigrazione di massa, in particolare verso il continente americano.
Vi erano, poi, quanti lamentavano che gli interessi meridionali venivano sacrificati a vantaggio del Nord.
E che dire del malcontento diffuso nei confronti delle classi dirigenti nazionali che segnava una profonda frattura tra istituzioni e Paese reale, uno dei fattori che determinò un clima di contrapposizione tra Stato e popolo.
La popolazione del sud, inoltre, non si era mobilitata né nella lotta risorgimentale per l’unificazione che si ritrovò quasi calata dall’alto dall’Impresa dei mille, se non per quei “picciotti” che si erano uniti ai garibaldini, nè dopo lo sbarco in Sicilia perché non prese parte alla lotta per la resistenza al nazifascismo in quanto venne liberata direttamente dagli angloamericani e non da forme di resistenza da parte della lotta di popolo. La liberazione prima dal regime borbonico nel 1860 e poi dal fascismo nel 1943 non avvenne dal basso, non dalla mobilitazione popolare ma da forze esterne che imposero nuovi modelli non rivendicati dal popolo. Eventi storici che fecero che il Sud Italia si distinse per l’assenza di un vero sentimento patriottico nazionale e non si sentisse parte di una entità politica nascente. Anzi, secondo una certa storiografia i vertici di cosa nostra colsero l’occasione dello sbarco in Sicilia nel luglio 1943 per riacquistare potere ed influenza, poiché in cambio del loro appoggio nello sbarco in Sicilia vennero posti dagli alleati ai vertici delle amministrazioni locali, riacquistando quel potere che era stato in parte ridimensionato dal regime.
E in un proto-maxiprocesso già nel 1938 la questura di Palermo evidenzia che “Nonostante tutte le ondate di provvedimenti di polizia e giudiziari più o meno energiche ed a proporzioni più o meno vasta, che si sono susseguite, l’organizzazione criminosa, conosciuta da secoli in Sicilia ed altrovesotto il nome generico di “mafia”, ha sempre resistito a tutti i colpi e non ha mai cessato realmente di esistere”, sottolineando come fosse difficile viste le vantate protezioni politiche. Ci ricorda qualcosa?! Il regime fascista tentò di combattere l’organizzazione grazie anche al “prefetto di ferro” Mori che tentò di colpire la mafia ma sul piano economico e sociale nulla venne fatto per far decollare economicamente il Sud, nessuna riforma agraria, nessun investimento, nessun intervento per migliorare le condizioni di miseria delle “plebi meridionali”. Queste ultime, oggetto di tanta produzione letteraria da Verga a Pirandello, da C. Levi a Silone, a Sciascia, vengono inchiodate al loro fatalistico e irrimediabile destino di sofferenza e di miseria.
Quali le ragioni di tali condizioni? Motivazioni di tipo storico, politico, economico, sociale, geografico e antropologico.
Tutti problemi endemici che si sono riversati nella nostra democrazia e che ancora oggi faticano a essere definitivamente risolti.
Tutto ciò serve chiaramente a comprendere le ragioni del ritardo ma non a giustificarne il permanere in una condizione di subalternità rispetto ad un Nord -centro che palesemente gioca un ruolo trainante dell’economia del paese che si ritrova a trainare ciò che ritiene una zavorra piuttosto pesante.
E’, in realtà, solo dal dopoguerra che la questione meridionale è stata oggetto di attenzione della classe politica con interventi a volte massicci di investimenti vedi la Cassa per il mezzogiorno. Questa, Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale[1], era un ente pubblico creato dal Governo De Gasperi VI, per finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico del meridione d’Italia allo scopo di colmare il divario con l’Italia settentrionale. Venne istituito nel 1950 al fine di predisporre programmi, finanziamenti ed esecuzione di opere straordinarie dirette al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale per un decennio ma “l’intervento fu poi più volte prorogato sino al 1991 e sotto il nome sia di Cassa per il Mezzogiorno sia di AgenSud, ha elargito alle regioni meridionali un totale di 82 410 miliardi di lire. La spesa media annuale è stata di circa lo 0,65% del PIL.” Dal 1993 venne lasciato al Ministero dell’economia e delle finanze il compito di coordinare e programmare l’azione di intervento pubblico nelle aree economicamente depresse del territorio nazionale.
Secondo le forze di sinistra la Cassa per il Mezzogiorno sarebbe stata una maniera per favorire le politiche clientelari della democrazia cristiana.
Nonostante 70 anni di finanziamenti a fondo perduto e investimenti significativi, oggi il divario di ricchezza permane in termini di PIL pro capite e in termini di produttività. Il reddito pro capite è mediamente il doppio al Nord rispetto al Sud, e i tassi di disoccupazione così come il lavoro nero sono pari al doppio al Sud rispetto al Nord.
E, nonostante gli ingenti investimenti, ancora oggi ci troviamo dinanzi ad un’Italia a 2 velocità con nuove emergenze: questione della povertà assoluta, il problema del lavoro povero. Al Sud si guadagna il 20% in meno che al Nord. E che dire delle performance scolastiche? La scuola al Sud registra un altissimo tasso di abbandono scolastico. E dell’emigrazione dei giovani, circa 100mila all’anno? Anche se questi vivono la mobilità come risorsa e non come fuga. Quindi uno dei passaggi fondamentali sarebbe investire su questi giovani, in termini di politiche di sostegno e di incentivi per progetti innovativi.
E ancora il tema della “legalità” che, inutile nasconderselo, blocca intere aree del Mezzogiorno che sono controllate dalla criminalità organizzata, che gestisce gli appalti, condiziona e pilota gli investimenti, ricatta le aziende. La pandemia ha tragicamente aumentato sia il divario che i nuovi poveri.
Tuttavia, si stenta a trovare una spinta dal basso e uno sviluppo auto-propulsivo.
E’ proprio alla luce di questi problemi ancora irrisolti che spunta la Lega che dopo aver sparato alla grande con l’idea della secessione della Padania, da decenni rilancia l’idea della autonomia o del regionalismo differenziato, con l’obiettivo di operare un ingentissimo trasferimento fiscale dalle casse dello Stato a quelle delle regioni economicamente più forti del Nord.
”L’ “Autonomia differenziata”? “È il riconoscimento, da parte dello Stato, di una peculiare specificità di un territorio, mediante l’attribuzione in via esclusiva alla regione a statuto ordinario, di una potestà legislativa per le materie di legislazione concorrente e/o per tre di quelle di competenza esclusiva dello Stato”.
Una legge, promossa dalla Lega, che il governo si appresta ad approvare. Un tentativo di disgregazione del paese che pone a serio rischio la stessa unità nazionale. L’”Autonomia differenziata”, la devolution, richiesta dalle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (ma tentano di inserirsi pure dei governatori meridionali per appropriarsi anch’essi di poteri dello Stato), costituirebbe una modifica strutturale: il trasferimento alle Regioni di funzioni amministrative e poteri legislativi in diverse materie, come la tutela della salute, la produzione e la distribuzione dell’energia, l’ambiente, l’organizzazione scolastica, la polizia locale fino alla tutela dei beni culturali (ad esempio i Soprintendenti ai monumenti, alla archeologia, e ai beni storico-artistici verrebbero nominati dai presidenti regionali). Soprattutto prevede che le Regioni a più alto reddito trattengano gran parte delle tasse raccolte nel territorio sottraendole alla fiscalità nazionale, così approfondendo sempre di più le disomogeneità. La Costituzione la prevede nelle materie che si possono considerare forme e condizioni “particolari” di autonomia nei singoli territori. Ma debbono essere, appunto, “particolari”. E allora la domanda è: dove stanno le particolarità che rendono percorribile la richiesta delle tre regioni? Come sostiene qualcuno, preparerebbe la secessione delle regioni ricche ai danni del sud. E’ certamente un dibattito ideologico, dove, ancora una volta le parole come governatore, federalismo, autonomia differenziata, tentano di imporre una realtà che nella Costituzione italiana non esiste, non ha alcun fondamento.
A ciò si aggiunga che i diritti non sono regionalizzabili: i diritti civili e sociali sono del cittadino e non del territorio e vanno assicurati «prescindendo dai confini territoriali dei governi locali».
Inutile negare che si configura come una lotta di classe rovesciata, una “secessione dei ricchi” contro i poveri, che stravolge l’idea fondante della Costituzione, cioè uno stato sociale egualitario che viene fortemente incrinata ed è espressione della classe dominante delle regioni dominanti.
I maggiori poteri e le maggiori risorse alle Regioni ricche faranno aumentare il già forte divario tra Nord e Sud. Inoltre, la regionalizzazione della scuola altererebbe una delle istituzioni fondamentali per la coesione del paese.
E’ quindi in pericolo la stessa Costituzione democratica perché vanifica e stravolge il principio fondamentale sancito dalla Costituzione: l’unità e l’indivisibilità della Repubblica.
L’Italia è una penisola lunga 1300 km. La concentrazione delle attività economiche nelle regioni con maggiore mercato potenziale rimane ancora elevata. Il Mezzogiorno, distante dai grandi e ricchi mercati del Settentrione e d’Europa, con infrastrutture carenti è destinata a diventare irreversibilmente periferia d’Europa.
Bisognerebbe, al contrario, pensare a programmi sovra-regionali, che affrontino una volta per tutte le annose questioni legate alle infrastrutture (treni, autostrade, portualità), agli investimenti produttivi (finalmente liberati dai piccoli interessi politici locali), alla possibilità di essere concorrenziali sui mercati globali, al ruolo stesso del Mezzogiorno, ponte naturale dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo.
Certo all’orizzonte ci sono il Piano Sud 2030, il Piano nazionale di ripresa e resilienza e i Fondi europei per il settennato 2021-2027 per circa 150 miliardi. La sfida, quindi, sarà utilizzare queste risorse nella maniera più efficiente ed efficace possibile. Ci darà l’opportunità di colmare ritardi strutturali, per rafforzare strategie di sviluppo sostenibile, per ammodernare la pubblica amministrazione, per allungare il passo nell’innovazione, per potenziare il welfare. C’è la possibilità di ridurre gli squilibriinterni, di accelerare nella transizione ecologica e digitale». Per Mattarella c’è un punto fermo da prendere in considerazione come fondamenta di ogni decisione. E si tratta della «garanzia dei diritti dei cittadini, che al Nord come nel Mezzogiorno, nelle città come nei paesi, nelle metropoli come nelle aree interne, devono poter vivere la piena validità dei principi costituzionali. Gli stessi diritti a tutti, Nord e Sud”».
In conclusione, bisogna tener conto che nel Mezzogiorno esistono spazi di vitalità economica, competenze ed energie morali e culturali capaci di guidare un nuovo processo di sviluppo, che per realizzarsi necessita di un intervento massiccio da parte dello Stato per specifiche iniziative produttive e per la costruzione delle indispensabili infrastrutture. E non ci dimentichiamo che se è vero che nessuno si salva da solo e saranno imprescindibili gli interventi statali ed europei, è anche vero che dovrebbe nascere una spinta dal basso per mettere in campo tutte quelle energie produttive, per mobilitare sinergie di creatività, per implementare il coinvolgimento dei cittadini nella co-progettazione, per potenziare azioni concretamente realizzabili e predisporre strumenti adeguati per una rinascita economica e sociale oltre che culturale grazie a quel patrimonio che pure è presente e che si trasformi in atto e non resti solo potenziale.
Non c’è più da attendere, ma bisogna agire perché “se non ora, quando?”.