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30 Settembre 2024Come in tutte le materie bipolari che si rispettino, cioè oggi praticamente tutte (anche su come si fa la pasta all’Amatriciana), il tema della repressione/inasprimento delle pene versus rieducazione e welfare sociale e viceversa è materia che spacca la politica e l’opinione pubblica.
Superfluo ricordare quale fronte politico è per l’una e per l’altro.
Ricorrendo all’immagine della politica/opinione pubblica “spaccata in due come una mela”, il giornalista Gramellini in un suo elzeviro di qualche tempo fa ricordava, con costernazione vera, che chi ci rimette nella mela spaccata in due è sempre il torsolo, identificandosi in esso. Cioè ci rimette sempre il buon senso, la voglia di ragionare senza anatemi, il senso della complessità, il rifiuto di schierarsi a prescindere. Metafora riuscitagli non proprio bene, se è vero che in una mela spaccata anche il torsolo si spacca, purtroppo. Seppure nel ragionare senza il ricatto di un voto elettorale da mettere nell’urna, il torsolo, se è bello duro, ha migliori possibilità di sopravvivenza. Con in più la possibilità, se resiste, di non far spaccare la mela.
Nei numerosi casi di specie sul menzionato oggetto del contendere, a Venezia c’è il caso fresco fresco dell’accoltellamento del giovane che si è immolato per difendere in piena notte una donna derubata, e cioè il contesto del sempre più grave degrado sociale nella zona tra Mestre sud e Marghera nord. La manifestazione che ne è seguita qualche giorno fa invocava a gran voce interventi/investimenti/riorganizzazione nei servizi sociali, di strada soprattutto, par di capire. A cui il sindaco Brugnaro, con la sua nota e ormai leggendaria idiosincrasia per un atteggiamento minimamente dialogante, ha ribattuto incazzato: “in galera, altroché”.
Praticamente un dialogo tra ‘sordi veramente sordi’ e però mai muti, come in certe circostanze occorrerebbe. Ammetto che, da reo confesso-profondamente ignorante, anch’io ho fatto un po’ fatica a capire in che modo un servizio di strada avrebbe potuto intercettare e prevenire quell’omicida-rapinatore che non proferisce parola italica, esprimendosi poco o niente in uno stentato russo, e sfuggito fin lì a tutti i radar istituzionali. Mi fido però della buona fede e soprattutto della reputazione di un politico come Gianfranco Bettin, che di sociologia applicata ne sa, per immaginare che una rete di servizi sociali efficienti ha in ogni caso buone motivazioni per essere ricreata o rafforzata e di molto, non bastando il poco e tardi che la giunta veneziana ha rimesso stentatamente in piedi, a un certo punto. Inoltre a parer mio, solo perchè preoccupata del consenso.
In questi casi i ragionanti del torsolo azzarderebbero una terza via che tra servizi sociali e contenimento/repressione, forse anche con qualche ben mirato inasprimento delle pene, sceglie entrambe, in nome degli ‘et et’, aborrendo, per loro costituzione etica, gli ‘aut aut’ ( se vogliamo è il “ma anche” di veltroniana memoria). Ma sappiamo che i pregiudizi ideologici dei due fronti della mela spaccata non consentono, per ora, l’assunzione di questo senso di responsabilità che non ha e non può avere certezze, ma solo ipotesi, seppure nella pressione delle scelte da compiere.
Ragiono su alcuni aspetti, a braccio.
I fautori dei servizi sociali dovrebbero ammettere che, per esempio, il fenomeno-droga, fattore dominante anche se non unico del degrado, è ormai strutturale nelle società mondiali. E non nasce solo dal disagio sociale, ma si nutre di una ampia domanda anche più normale, che richiede droga pur essendo il soggetto richiedente anche uno che sta benone in famiglia e sul lavoro. Quindi la rete sociale non può tutto, può solo in parte, anche se è una parte essenziale da coprire e bene, quanto meno per ottenere la ‘riduzione del danno’. In definitiva è bene rendersi conto che quell’analisi frettolosa e sloganistica, molto cara anche alla mia generazione sessantottina e che recita “E’ colpa sempre della società”, ha fatto il suo tempo e va sostituita da una visione più complessa del tutto. E invece mi pare che siamo ancora e sempre fermi lì, alla società malata.
Ho tuttavia altrettanti corposi dubbi sulla deterrenza che potrebbero rappresentare pene inasprite.
Chi delinque infatti non sente ragioni e non gliene frega nulla delle conseguenze, non ci pensa proprio. Troppa è l’ebbrezza, la follia o la necessità del delinquere sul momento per ragionare sul futuro che si prospetta. Chi fuma 60 sigarette al giorno è attratto dal piacere momentaneo e/o dal suo bisogno e lo spettro del tumore ai polmoni non lo sfiora minimamente e lo ricaccia. Ma penso anche agli omicidi-femminicidi con coltellacci domestici e ai loro autori. La voglia-necessità di uccidere è tale che l’ergastolo quasi certo (o la lunghissima detenzione) per chi lascia tracce dappertutto non viene neppure considerato. Tant’è che in molti casi si assiste all’omicidio suicidio. Chi non lo mette in atto per mancanza di coraggio di fatto si autocondanna lo stesso e in qualche modo si suicida lo stesso.
Quindi la fregola repressiva che di solito brandisce un ‘certo’ fronte politico andrebbe temperata da considerazioni che non siano solo propagandistiche, ma realistiche sull’animo umano e su cosa succede dentro l’animo dei colpevoli, rendendosi conto che la deterrenza è un argomento razionale ininfluente per chi razionale non è mai. Con sullo sfondo una certezza che, ancora una volta, dà dei reati gravi una visione più realistica e sdrammatizzante, con molte chance per la società modernizzata in cui viviamo. Come ci ricorda infatti, numeri alla mano, l’antropologo e sociologo israeliano Yuval Noah Harari nel suo lungimirante libro “Sapiens. Da animali a dei”, nell’ultimo secolo rispetto al secolo precedente nel pianeta, e presumo anche in Italia, le morti non naturali e procurate con violenza sono diminuite verticalmente, quasi in un rapporto di uno a cinque. E soprattutto sono circondate da una condanna sociale che nel passato era praticamente assente.
La perplessità sull’effetto deterrenza di una pena si possono del resto trasferire al dibattito che sta suscitando la legge sul voto in condotta a scuola, e, seppure in un contesto completamente diverso, con una certa simmetria con il falso dilemma servizi sociali vs repressione per il degrado sociale.
Recentemente ho letto nel blog Fanpage.it una circostanziata e veemente filippica del giornalista e scrittore Roberto Saviano contro questa inasprimento, a cui lui attribuisce trame repressive e di soffocamento di un potenziale salutare, a parer suo, ribellismo scolastico. Lo fa attraverso un ragionamento sproporzionato e intriso di furore ideologico, che di solito invece virtuosamente trattiene. Tuttavia, Saviano fa emergere l’unica nota sensata quando afferma, con ragione, che in questo campo scolastico, senza inasprire nulla, basterebbe applicare meglio le norme vigenti, già sufficientemente repressive. Con ciò ammettendo, non so quanto consapevolmente, che anche a scuola comunque una linea ferma e punitiva va comunque tenuta, pur conoscendone i limiti, gli stessi già citati per ciò che riguarda il delinquere sociale. Ovvio che a scuola più ancora che per la strada l’educare e il formare alla responsabilità e al rispetto dovrebbero essere il pane quotidiano.
Quanto alla deterrenza di un voto di condotta, che può anche far perdere l’anno, vale la memoria di chi scrive, riferita alla sua età pre adolescenziale, circa i cattivi voti a scuola e delle potenziali bocciature per profitto negativo, per altro nella più rigida epoca pre sessantottina . Ebbene, rispetto all’ebbrezza di pomeriggi di libertà nel giocare a pallone anziché studiare, quella deterrenza ebbe effetti nulli, con relative dolorose e reiterate conseguenze sulla perdita di anni scolastici. Una solfa interrotta solo quando, non per le deterrenze delle bocciature, ma per auto convincimento, chi scrive ha deciso di invertire la rotta. Per la condotta, temo, valga la stessa cosa.
In entrambi i casi di scuola citati bisognerebbe dunque ricominciare a ragionare a mente fredda, chiedendo alla politica di evitare di usare, soprattutto in campo sociale ed educativo, i temi identificatori di parti politiche come bandiera da agitare e come tacche sulla cintura da brandire alla fazione più radicale emotiva e irrazionale del proprio elettorato.
Non volendo mai e poi mai fare l’anima bella, so bene che la strumentalità sui temi di ogni tipo è un’arma di chi fa politica, che tutti usano e che va messa nel conto senza scandalizzarsi troppo. Ma fino a un certo punto.