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23 Giugno 2025Ex caserme, ospedali dismessi, palazzi storici, terreni edificabili. Questi sono solo alcuni dei circa 400 immobili pubblici che sono stati presentati alcune settimane fa nella nuova sezione digitale “Crea valore, investi con noi” dell’Agenzia del Demanio. Si tratta di una piattaforma interattiva che ha l’obiettivo di promuovere i beni messi a disposizione di investitori privati nazionali e internazionali, con schede tecniche, dati strutturali e destinazioni d’uso possibili, da hub culturali a housing sociale, fino a impianti per energie rinnovabili.
L’iniziativa segna un cambio di paradigma importante: non più alienazione o dismissione del patrimonio pubblico, ma una strategia orientata alla valorizzazione dei beni immobiliari secondo logiche di partenariato pubblico–privato, finalizzate a generare valore economico, sociale, culturale e ambientale nei territori.
In questa prospettiva, l’operazione promossa dall’Agenzia del Demanio può essere assunta come un caso emblematico per interrogarsi su un nodo più ampio: quali sono oggi gli strumenti – normativi, fiscali, urbanistici e amministrativi – capaci di incentivare, o talvolta obbligare, sia le amministrazioni pubbliche sia i proprietari privati a rimettere in circolo il proprio patrimonio edilizio inutilizzato? In che modo è possibile trasformare luoghi in abbandono in nuove opportunità collettive? Ma anche: come affrontare le criticità che questi processi possono innescare, in contesti urbani già abitati o socialmente fragili? È il caso, ad esempio, dell’ex caserma Sanguinetti a San Pietro di Castello, a Venezia, dove la progettualità istituzionale si è scontrata con la presenza e le rivendicazioni degli attuali occupanti, dando origine a un conflitto ancora aperto.
Da queste domande si può partire per analizzare il tema dell’abbandono non solo come problema giuridico, ma come questione urbana, sociale e culturale. Un percorso che attraversa le responsabilità individuali e collettive, le politiche di rigenerazione, gli strumenti normativi oggi disponibili e le pratiche già in atto nelle città italiane.
Il dovere di non abbandonare
Il primo ambito su cui vale la pena soffermarsi riguarda il principio del dovere di non abbandonare. Un principio che si traduce in un insieme di obblighi giuridici e misure sanzionatorie nei confronti di chi lascia che un immobile degradi, senza intervenire per metterlo in sicurezza o ristrutturarlo. Secondo l’articolo 2051 del Codice Civile, ciascuno è responsabile dei danni causati dalle cose che ha in custodia. Tradotto: se un edificio in rovina provoca danni a persone o cose, il proprietario risponde. Ma le norme non si fermano qui.
Molti regolamenti edilizi comunali impongono obblighi di decoro, sicurezza e igiene: tetti, facciate, recinzioni devono essere mantenuti in buone condizioni. Il mancato rispetto può portare a sanzioni, ingiunzioni e persino interventi sostitutivi da parte dell’amministrazione, con addebito dei costi al proprietario.
A questi obblighi si aggiungono le disposizioni previste dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.lgs. 42/2004), che si applicano agli immobili dichiarati di interesse culturale, storico, artistico o archeologico. In particolare, l’art. 10 del Codice definisce cosa si intende per “bene culturale”, mentre l’art. 30 stabilisce che i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di tali beni hanno l’obbligo di garantirne la conservazione, integrità e manutenzione ordinaria, al fine di evitarne il degrado o la perdita di valore culturale.
In caso di omessa manutenzione o abbandono, l’autorità competente (nella maggior parte dei casi la soprintendenza o il Comune, se delegato) può ordinare l’esecuzione di interventi conservativi e, se il proprietario non vi ottempera, può procedere con interventi sostitutivi a sue spese (art. 32). Inoltre, in situazioni particolarmente gravi, è anche previsto l’esproprio per pubblica utilità finalizzato alla tutela e alla valorizzazione del bene (art. 95).
Parallelamente, molte regioni italiane – tra cui il Veneto, l’Emilia-Romagna e la Lombardia – hanno adottato leggi specifiche per il recupero di aree urbane dismesse o degradate. Queste norme, in alcuni casi, permettono ai Comuni di includere tali aree nei Programmi Integrati di Rigenerazione Urbana. Quando un immobile dismesso risulti incompatibile con gli obiettivi pubblici di sicurezza, salubrità o decoro, e il proprietario risulti inerte per un lungo periodo (in alcuni casi oltre 5 o 10 anni), l’amministrazione può procedere con l’espropriazione ai sensi del D.P.R. 327/2001 (Testo unico sugli espropri), purché l’intervento sia previsto in uno strumento urbanistico attuativo.
Questo tipo di procedura, sebbene complessa e soggetta a garanzie procedurali, rappresenta una leva pubblica strategica per sbloccare situazioni di degrado protratto e restituire alla collettività spazi in stato di abbandono cronico.
Nel caso della proprietà privata in particolare, si può intervenire non solo attraverso strumenti coercitivi, ma anche secondo una logica di premialità che si traduce in politiche fiscali intelligenti, che penalizzino l’abbandono vero e premino chi riattiva e cura.
La visione, oltre le sanzioni
Tra gli strumenti oggi a disposizione, è tuttavia la leva degli incentivi e delle semplificazioni normative ad apparire, con ogni evidenza, la più promettente in ottica rigenerativa, soprattutto per chi intende riconvertire il patrimonio edilizio esistente in modo creativo, sostenibile e funzionale ai bisogni contemporanei.
In molte città italiane interi edifici restano vuoti per anni. Si stima che esistano circa un milione di immobili pubblici, molti dei quali inutilizzati. La sola superficie dismessa nel pubblico ammonta ad oltre 19 milioni di mq, per un valore complessivo stimato di 12,1 miliardi di euro (dati MEF 2018).
Ma abbandonare uno stabile non è la stessa cosa che tenerlo semplicemente inutilizzato. Ecco perché, secondo alcuni studi[1], si deve fare una distinzione fondamentale: non tutti gli immobili vuoti sono un problema. Lo diventano quando sono davvero abbandonati, cioè lasciati senza alcuna cura, manutenzione o responsabilità.
Secondo questa analisi, occorre spostare l’attenzione dal “non uso” al “non prendersi cura”. Un edificio può essere vuoto per mille motivi legittimi: eredità, investimenti, seconde case, momenti di passaggio.
Ma se un bene viene lasciato andare in rovina, diventa un problema pubblico: crea degrado urbano, genera insicurezza, svaluta il contesto e può perfino provocare danni fisici a chi vi abita intorno.
Soprattutto nel caso del patrimonio pubblico, come scuole dismesse, ex caserme o ospedali chiusi, l’abbandono diventa anche uno spreco collettivo. Riattivare questi beni significa creare valore sociale, culturale ed economico.
Milano in questo senso può essere citato come esempio virtuoso: dal 2019 è in vigore una norma che, a partire da una mappatura chiamata Atlante dell’abbandono, impone ai proprietari di edifici abbandonati di intervenire entro 18 mesi, pena multe e riduzione dei diritti edificatori. Allo stesso tempo, la città ha attivato bandi, piani e mappature per il riuso partecipato del patrimonio pubblico, coinvolgendo associazioni e cittadini.
Ma c’è anche un messaggio etico: possedere qualcosa comporta una responsabilità verso la collettività. Chi abbandona uno stabile nega alla città uno spazio potenzialmente utile: per abitare, lavorare, incontrarsi, creare cultura. Ecco perché – suggeriscono gli autori – dobbiamo imparare a guardare con più attenzione agli edifici dimenticati: non solo come ruderi, ma come occasioni mancate.
La sfida non è punire chi non usa, ma intervenire dove l’abbandono danneggia. Una città sana è quella che sa distinguere, ascoltare, valorizzare. Anche attraverso i suoi vuoti.
Per questo è fondamentale affiancare alla logica del dovere (manutenzione, sanzione, responsabilità civile) quella dell’opportunità. Sia per l’interesse pubblico che per il valore privato.
Beni comuni e rigenerazione dal basso
In questa direzione si muove il Regolamento dei Beni Comuni, adottato da diverse città italiane, tra le quali anche Venezia (nel caso veneziano va però detto che, alla sua adozione, non ha fatto seguito una reale attuazione).
Il Regolamento per i Beni Comuni rappresenta uno strumento innovativo di governance urbana. Esso consente di avviare percorsi di rigenerazione sociale e territoriale attraverso forme di collaborazione diretta tra istituzioni e cittadini, basate sulla condivisione di obiettivi, responsabilità e risorse. Questo approccio favorisce l’attivazione dal basso di politiche pubbliche, promuovendo la cura e il recupero di spazi in stato di abbandono o degrado, con potenziali ricadute positive anche sul piano della sicurezza urbana.
Il Regolamento si configura come una cornice giuridica agile ed efficace per facilitare la cooperazione tra amministrazioni locali e comunità, consentendo l’uso temporaneo, la gestione condivisa e la valorizzazione di beni pubblici dismessi. Grazie a procedure snelle e accessibili, esso apre la partecipazione anche a singoli cittadini, gruppi informali o realtà associative che altrimenti non riuscirebbero a concorrere nei più tradizionali bandi pubblici. In questo modo, si attivano energie civiche e progettualità diffuse, generando politiche urbane inclusive e capaci di rafforzare il tessuto sociale.
Usi temporanei e luoghi del riuso
Un’altra via per rispondere al degrado è rappresentata dagli usi temporanei, regolati dal D.P.R. 380/2001, art. 23-quater. Questa norma consente di utilizzare edifici e aree per funzioni diverse da quelle previste dal piano regolatore, in modo provvisorio ma legalmente riconosciuto.
I vantaggi? Attivare progetti culturali, commerciali o associativi in spazi inattivi; testare usi e destinazioni d’uso; dare tempo e respiro a percorsi di rigenerazione complessi. In molte città europee questa strategia è diventata la norma per ridare senso a luoghi svuotati dalla crisi economica o dal calo demografico.
Alla scala locale, la Legge Regionale Veneto n. 14/2017, dedicata al contenimento del consumo di suolo, introduce all’articolo 8 una misura innovativa per promuovere la rigenerazione urbana: il riuso temporaneo del patrimonio edilizio esistente. La norma consente ai Comuni di autorizzare, su proposta dei proprietari o aventi titolo, l’utilizzo di edifici dismessi o inutilizzati (fuori dalle zone agricole e con esclusione degli usi ricettivi), anche in deroga alla destinazione urbanistica prevista.
L’obiettivo è duplice: limitare l’espansione urbana e favorire il riutilizzo a breve termine di spazi abbandonati attraverso attività che generino valore sociale, culturale ed economico. Tra le funzioni prioritarie individuate figurano il lavoro di prossimità, le iniziative artigianali e di servizio, le attività culturali e creative, lo sport di comunità e le pratiche di verde urbano partecipato. Il riuso può essere autorizzato per un periodo massimo di tre anni, prorogabile una sola volta fino a un massimo di cinque.
Il Comune può approvare il progetto di riuso con apposita deliberazione, e ne disciplina i contenuti tramite una convenzione: sono definite le condizioni di utilizzo, le modalità di restituzione dell’immobile, le sanzioni per inadempienze, eventuali incentivi per immobili privati messi a disposizione e le dotazioni infrastrutturali minime necessarie.
Gli enti locali sono inoltre obbligati a pubblicare annualmente sul proprio sito l’elenco aggiornato dei “Luoghi del Riuso”, comprensivo delle convenzioni e dei progetti autorizzati, inviando tale documentazione alla Regione. La norma si configura come uno strumento flessibile, volto a integrare obiettivi di sostenibilità urbana, valorizzazione temporanea del patrimonio esistente e semplificazione delle pratiche di riuso.
Un esempio emblematico di riuso temporaneo a scala locale è rappresentato dall’Esperienza Pepe al Lido di Venezia. L’ex Caserma Pepe, struttura militare in disuso dalla fine degli anni Novanta, è stata oggetto nel 2018 di un progetto temporaneo promosso da Encore Heureux e Biennale Urbana, nell’ambito del Padiglione francese della Biennale di Architettura. L’iniziativa ha trasformato l’area in uno spazio aperto e condiviso, dotato di servizi temporanei, spazi ricreativi, un bar, una cucina collettiva e il “Cinema Pepe”. Un progetto pensato come processo in divenire, che ha dimostrato come il valore dei luoghi possa emergere proprio dalla loro condizione di incompiutezza, aprendoli a usi plurali e comunitari.
Il valore della rigenerazione
In definitiva, il tema dell’abbandono edilizio non può più essere affrontato come una questione privata, né delegato esclusivamente alla dimensione normativa. Ogni edificio lasciato al degrado rappresenta una perdita collettiva: abbassa la qualità dello spazio urbano, alimenta fenomeni di marginalità e incide negativamente sul benessere ambientale, sociale ed economico delle comunità locali.
È evidente che le norme, da sole, non bastano. Serve una strategia integrata: fatta di strumenti giuridici efficaci, incentivi mirati, semplificazioni procedurali e una cultura della responsabilità condivisa, non solo per gli enti pubblici ma anche per i privati, i cittadini attivi, le organizzazioni sociali. Una scelta capace di restituire valore a ciò che è stato dimenticato.
[1] Stefano Moroni , Anita De Franco & Beatrice Maria Bellè (2020): Unused private and public buildings: Re-discussing merely empty and truly abandoned situations, with particular reference to the case of Italy and the city of Milan, Journal of Urban Affairs, DOI: 10.1080/07352166.2020.1792310