
Un nuovo Segretario per Azione
8 Febbraio 2025
«Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del trumpismo”.
12 Febbraio 2025“Non disprezzate la cattiva musica.
Il suo posto è nullo nella storia dell’arte,
ma immenso nella storia sentimentale
della Società”
(Marcel Proust)
Il 2025 si è aperto con una polemica giornalistica tra Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, e Francesco Guccini a proposito delle canzoni Gloria (1979) di Umberto Tozzi e La locomotiva (1972) del cantautore modenese. Interpellato da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera a proposito della canzone d’autore, Jovanotti afferma: “non mi convince la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Gloria di Umberto Tozzi non ha nulla da invidiare alla Locomotiva di Guccini. I miei preferiti sono Dalla e Battiato, proprio perché sono molto pop[1]. Ma anche De Gregori lo è».
Ma Guccini non ci sta e, sempre sulle pagine del Corriere, ribatte: «C’è un lavoro intellettuale dietro certe canzoni e non voglio fare di classe A, classe B, eccetera… Però, c’è tutto un mondo diverso che dietro a Gloria non c’è. Anche se è una bella canzone, una canzone simpatica».
Che poi, a ben vedere, Gloria, ottenne all’epoca un successo enorme in tutta Europa: vincitrice di ben sette dischi di platino e che, nella versione cover di Laura Branigan (presente nel film Flashdance di Adrian Lyne), raggiunse il primo posto dei singoli USA nel 1983, riconoscimento prestigioso conquistato in precedenza soltanto da Domenico Modugno con il brano Nel blu, dipinto di blu.
Sembra quasi di essere ritornati agli anni ’70 quando imperava la distinzione tra musica ‘impegnata’ e brani ‘commerciali’. E anche se, da cantautore formatosi al Folkstudio di Trastevere, Francesco De Gregori aveva tutte le carte in regola per rientrare tra gli artisti impegnati, gli è capitato comunque di dover subire un processo pubblico nel corso del suo concerto del 2 aprile 1976 al Palalido di Milano[2], “colpevole” soltanto del fatto che il suo album “Rimmel” stava avendo un buon successo e che il cantante si fosse fatto pagare per la sua performance.
Quella sera, il concerto fu interrotto più volte dai contestatori che, nonostante fosse già stato accordato l’ingresso agli autoriduttori[3], questi salirono sul palco e, tolta la chitarra di mano al cantautore, diedero lettura di volantini e comunicati politici. Le contestazioni di questo genere erano piuttosto frequenti all’epoca sia nei confronti dei cantautori (Lucio Dalla, Lucio Battisti, Antonello Venditti, Giorgio Gaber), sia dei gruppi stranieri: il concerto dei Led Zeppelin al velodromo Vigorelli del 5 luglio 1971 fu funestato da scontri con la polizia e lanci di fumogeni, l’esibizione di Lou Reed al Palasport di Roma culminò con il sequestro dell’organizzatore David Zard e il concerto di John McLaughlin a Venezia al Teatro Malibran del 31 marzo 1977 viene ancora ricordato in città come “la notte dei fuochi” con numerosi incendi e impiego di lacrimogeni da parte della polizia. Tutte circostanze che interruppero le esibizioni in Italia delle star internazionali perché il nostro Paese non ne garantiva la sicurezza sino all’esibizione a sorpresa di Patti Smith per un reading di poesie e canzoni al Palazzo del Cinema del Lido di Venezia del settembre 1979, prima del suo annunciato concerto di Bologna.
Ciò che veniva duramente rimproverato, oltre al successo individuale e al conseguente fattore economico, era soprattutto che il modello proposto dai cantautori fosse di natura “personalista” se non addirittura intimista, in aperto contrasto con il dettato che in quegli anni imponeva che “ciò che è personale è politico”. A Francesco De Gregori, che pur si attribuì l’accusa di essere probabilmente “una vittima dell’industria musicale”, venne intimato di “lasciare lì l’incasso della serata” ed invitato ad “andare a fare l’operaio e di suonare la sera a casa tua”.
Inaspettatamente, sebbene con modalità assai meno intransigenti, le stesse accuse furono rivolte anche a Bob Dylan. È di questi giorni l’uscita sugli schermi italiani del film “Like A Complete Unknown” del regista James Mangold con un convincente Timothée Chalamet nei panni del diciannovenne Bob Dylan che, dopo essere andato a trovare in ospedale il suo eroe Woody Guthrie, inizia una straordinaria carriera a New York avendo come mentore nientemeno che Pete Seeger e i cantautori del suo entourage. I riferimenti al Greenwich Village nel film sono molteplici: dal Folk Club alla onnipresente mole in mattoni rossi del Chelsea Hotel. Quello che, tuttavia, dal film non traspare è l’atmosfera politico-culturale oltre che artistico-letteraria che si respirava nel Village. Qui aveva casa Allen Ginsberg sulla settima strada e un po’ oltre, al Marlton Hotel, sull’ottava strada, Jack Kerouac scrisse “I sotterranei” e “Tristessa”, mentre nell’appartamento (Almanac House) abitato da Sis Cunningham e da suo marito Gordon Friesen, i futuri editori di Sing Out! e di Broadside, al numero 104 della decima Strada, si incontravano i membri del Partito Comunista USA e provavano gli Almanac Singers[4] di Pete Seeger.
Con queste premesse, non c’è da stupirsi se, all’inizio degli anni ’60, allentatisi ormai i controlli paranoici del senatore McCarthy nei confronti del comunismo e degli altri attivisti dei vari movimenti sociali, il pensiero dominante nel Village circa il ruolo degli artisti fosse fondato sul dettato maoista che vuole l’arte al servizio del popolo, evitando ogni celebrazione dell’individuo e rigettando tutti gli aspetti commerciali ad essa collegati.
Nel novembre del 1965, sulle pagine di Sing Out! il suo dogmatico redattore Irwin Silber, appartenente alla sinistra radicale, pubblicò una “Lettera aperta a Bob Dylan” attaccando il cantautore di Duluth con queste parole: “A Newport ho notato che, in qualche modo, avevi perso il contatto con il popolo… e di come certe sirene del successo ti stessero bloccando”. Queste accuse, sebbene “scritte con amore e indice di profonda preoccupazione”, come ebbe a precisare lo stesso Silber sul Guardian, furono formulate “per aver abbandonato le canzoni politiche in favore di canzoni intimiste e auto-consapevoli”. Parecchi anni dopo, Silber ammise che al Festival di Newport 1965 “l’autentica preoccupazione non fu per l’impiego delle chitarre elettriche ad un Festival di musica folk… bensì per quanto Bob Dylan stava dicendo e facendo per allontanarsi dalle sue canzoni di protesta”.
Anche se nel frattempo Bob Dylan era ormai diventato troppo ingombrante per essere attaccato, il suo passaggio alla musica commerciale lo avrebbe di fatto inserito nella lista nera da parte di dei puristi del folk. Pete Seeger arrivò a profetizzare che “la nuova musica di Dylan era ‘distruttiva’ e sarebbe stata ben presto dimenticata, assieme a tutte le sue canzoni non politiche”. Lo stesso atteggiamento fu assunto con malcelato fastidio anche da Joan Baez che commentò: “anziché diventare il portavoce politico di una generazione, essere uno dei nostri, l’unico suo contributo per il cambiamento sociale è stato quello di scrivere canzoni”.
Dunque, non è mai stato un problema di volume degli amplificatori. Lo stigma era politico.
Le “canzoni di protesta” o “canzoni impegnate”, spesso associate ai movimenti per i diritti civili, contro la discriminazione razziale e per la pace conoscevano una lunga tradizione negli Stati Uniti fin dai tempi di Leadbelly, Phil Ochs (There But For Fortune), Tom Paxton, Cisco Houston, Pete Seeger (Where Have All the Flowers Gone? e If I had a Hammer) e Woody Guthrie (This Land Is Your Land), tutte personalità che, incarnando il mito del “vagabondo” (hobo), il lavoratore nomade che gira per tutto il Paese viaggiando clandestinamente sui treni merci, spinto da istanze libertarie e da una dichiarata insofferenza nei confronti del sistema, propongono dovunque i brani della tradizione popolare e dei blues, i canti di lavoro dei neri, adattandoli di volta in volta alla situazione presente, come ampiamente documentato dal musicologo Alan Lomax per l’archivio della musica popolare (Folk Song Archive) della Biblioteca del Congresso.
L’evento più rilevante riconosciuto al movimento si verificò il 23 agosto 1963 quando circa 300mila manifestanti marciarono su Washington. Una manifestazione per il lavoro e la libertà destinata a modificare il corso della storia dei diritti civili negli Stati Uniti culminata con il famoso discorso del reverendo Martin Luther King Jr. “I Have a Dream”, che vide anche la partecipazione dei cantautori folk. Joan Baez intonò We Shall Overcome, canzone nata come inno dei sindacati afroamericani del Sud mentre Bob Dylan cantò parecchi brani, tra cui When The Ship Comes In, ma non la già celeberrima Blowin’ in the Wind (che venne però cantata dal trio Peter, Paul and Mary) e che il cantautore non ha mai voluto fosse etichettata come “canzone di protesta”.
E in Italia? La canzone di protesta ha radici lontane che risalgono ai canti di lavoro e della Resistenza dove il tema principale è la lotta di liberazione dell’Italia dalla occupazione nazifascista dopo l’8 settembre del 1943. Emblematico, in questo senso, è il canto Bella Ciao con il verso “questo è il fiore del partigiano, morto per la Libertà”.
Analogamente a quanto accadeva negli Stati Uniti, sin dal 1957, a Torino operava il collettivo artistico dei Cantacronache formato dal giornalista musicologo Michele Luigi Straniero e Sergio Liberovici ai quali si aggiunsero Fausto Amodei e la cantante Margot, moglie di Liberovici e, come collaboratori esterni per i testi, Italo Calvino, Gianni Rodari, Franco Fortini e Umberto Eco. Il loro brano più celebre è senz’altro Per i morti di Reggio Emilia. L’intento dichiarato del collettivo musicale era quello di rendere nota, contrapponendola al nascente Festival di Sanremo[5], una canzone “impegnata” e di protesta con lo slogan “evadere dall’evasione”. Ma la gente che aveva conosciuto i disastri della Seconda Guerra Mondiale aveva bisogno di “musica leggera” e l’avventura dei Cantacronache ebbe fine nel 1962. Soltanto Amodei e Straniero assieme a Roberto Leydi continuarono con la ricerca nell’ambito dei canti popolari all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano riproponendo brani quali Maremma amara e Addio a Lugano con la partecipazione di cantanti d’ambito milanese come Milly, Maria Monti, Ivan Della Mea, Nanni Svampa ed Enzo Jannacci. Nel 1965 lo spettacolo del NCI Ci ragiono e canto con i “nuovi” del Gruppo di Piadena e Rosa Balistreri ebbe come regista Dario Fo.
Alla base della produzione di musica e spettacoli del NCI, veicolata attraverso i Dischi del Sole, era l’idea che la canzone di protesta trovava le sue basi nella tradizione popolare (folk) studiata dagli etnomusicologi e vennero coinvolti altri autori come Paolo Pietrangeli (Contessa), Pino Masi (La ballata del Pinelli), Alfredo Bandelli e, in ambito veneto, Gualtiero Bertelli, Alberto d’Amico, Luisa Ronchini
Alla fine degli anni Settanta, il “decennio più lungo del secolo breve” o degli “anni di piombo”, improvvisamente, si assiste ad un rapido cambiamento. Sono gli anni del riflusso nel privato, del disimpegno, dell’abbandono dei temi sociali e politici e, fatte salve le feste di partito e l’attività dei cantautori più “impegnati” Francesco Guccini, Lucio Dalla, Fabrizio De André, Pierangelo Bertoli, Francesco De Gregori e complice anche l’avvio delle trasmissioni meno paludate della televisione commerciale, iniziarono a prendere piede vari aspetti delle sottoculture giovanili che vanno dal consumismo alla moda e al rifiuto delle ideologie e così anche la musica ruota verso modelli più leggeri.
Un esempio, tra i molti, la metamorfosi di un interprete come Alan Sorrenti che dagli album Aria e Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto, rispettivamente del 1972 e 1973, passa ai brani che ancora oggi lo identificano Figli delle stelle del 1977 e Tu sei l’unica donna per me del 1979.
E oggi, nell’epoca del fluido, ecco che ritorna Jovanotti con la sua proposta di ecumenismo “Io credo che a questo mondo esista solo una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano”[6].
Metti un po’ di musica leggera
Perché ho voglia di niente
Anzi leggerissima
Parole senza mistero
(Colapesce Dimartino – Sanremo 2021)
[1] “Pop” in inglese, deriva da “popular” che non indica semplicemente ciò che va di moda o che ha successo, bensì legato a connotazioni estetiche prossime al concetto di “people” (persone, gente, del popolo)
[2] Cfr. C. Rubini, Rimmel, cinquant’anni fa, controcorrente nel decennio di piombo, sta in “Luminosi Giorni”, 1° gennaio 2025
[3] Gli autoriduttori sono stati un movimento politico in àmbito musicale degli anni Settanta, contiguo alla sinistra extra-parlamentare, in particolare ad Autonomia Operaia e ai movimenti anarco-situazionisti vicini alle tesi espresse da Guy Debord
[4] The Almanac Singers (Millard Lampell, Lee Hays, Pete Seeger e Sis Cunningham) furono un gruppo di musica Folk attivo a New York dal 1940 al 1943
[5] Prima edizione del Festival di Sanremo 29 gennaio 1951
[6] Jovanotti, “Penso positivo” – 45 giri del novembre 1993