
Conflitti interiori e collettivi sullo sfondo di una Gaza in guerra, con Maria Grazia Gagliardi.
27 Luglio 2025
Clandestino a chi?
28 Luglio 2025Bulimia trumpiana
Non passa giorno che non ci dobbiamo sorbire un’esternazione, una minaccia, una bufala del presidente americano: si rischia la bulimia.
Riassumendo alcuni fra i fatti principali.
Cosa è successo davvero un mesetto fa?
Tra Khamenei che parla come Woody Allen e Trump che parla come un ayatollah non è facile orientarsi.
Il 13 giugno Israele ha lanciato l’operazione Leone Nascente, colpendo oltre 100 obiettivi in Iran, tra cui l’impianto nucleare di Natanz e sei città, compresa Teheran.
L’Iran ha risposto con centinaia di droni e missili, colpendo Tel Aviv e altre città israeliane.
Il 22 giugno, gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente, bombardando tre siti nucleari iraniani. Trump ha annunciato l’operazione su Truth Social come una “azione chirurgica”.
La rappresaglia iraniana è stata simbolica: un attacco alla base USA in Qatar, senza vittime.
Il cessate il fuoco è arrivato poco dopo, con Trump che ha rivendicato il merito della tregua e Netanyahu che ha parlato di “vittoria storica”.
Questa guerra è stata tanto militare quanto mediatica. Le immagini, i post, le dichiarazioni. Tutto è stato calibrato per influenzare l’opinione pubblica globale. E in questo teatro, Trump e Khamenei hanno recitato ruoli quasi parodici: l’uno che si atteggia a mediatore globale agendo e usando espressioni fuori da ogni contesto politico e diplomatico “They don’t know what the fuck they’re doing‘ (“Non sanno che cazzo stanno facendo”), l’altro che con un messaggio preregistrato in cui ha rivendicato la «vittoria» su Israele e lo «schiaffo in faccia all’America». Parole che ricordano quelle di Woody Allen in Provaci ancora Sam, quando si vantava di avere dato una lezione a due energumeni che infastidivano la sua ragazza: «A uno gli ho dato una botta col mento sul pugno e a quell’altro una nasata sul ginocchio».
Ma ovviamente Donald Trump non è stato da meno, accusando Cnn e New York Times di diffondere fake news per sminuire i successi della sua amministrazione, motivo per cui ha minacciato di trascinare in tribunale le due testate e chiesto il licenziamento dei loro giornalisti, colpevoli di avere dato notizia di un rapporto preliminare dell’intelligence di cui la Casa Bianca, attenzione, non ha mai negato l’esistenza.
Ma sotto la superficie c’è un dato inquietante: il rischio nucleare è tornato al centro del dibattito, e la rapidità con cui si è passati da bombardamenti a tregua suggerisce che entrambe le parti abbiano toccato un limite — militare, politico o forse psicologico.
Tutto però dimenticato già il giorno dopo, in un mondo della comunicazione così sciatta e superficiale abituata a bruciare le notizie come fossero zampironi. Anche perché c’era altro di cui occuparsi: lo sterminio di Gaza con l’aiuto incondizionato degli USA al Governo di un indifendibile Netanyahu, e la guerra della Russia all’Ucraina, passata però in secondo piano nonostante il presidente americano abbia passato (di nuovo) un’ora al telefono con Vladimir Putin, l’aggressore, dopo avere tagliato le forniture militari agli aggrediti, cioè agli ucraini. Probabilmente immaginava di ottenere facilmente da Putin il via libera a una grandissima e bellissima proposta di pace, lui che aspira ad essere insignito del Nobel per la pace, ma il capo del Cremlino gli ha risposto invece che non intende rinunciare ai propri «obiettivi».
E un leader, al quale ormai nessuno chiede davvero conto di gesti prepotenti, affermazioni infondate, minacce basate su fatti inesistenti, anche per via della velocità con la quale vengono prodotte e diffuse sempre nuove storie, ha fatto così l’ennesima marcia indietro, gli ha dato 50 giorni di tempo – un’infinità – per chiudere con la guerra: vedremo se sarà come sui dazi, o come tutte le volte che è stato affrontato a muso duro.
Altro che “Kiss my ass” come gli è capitato di dire pubblicamente.
Il Partito Democratico è cambiato. E non è un dettaglio.
Una rivoluzione silenziosa ha trasformato il Pd. Elly Schlein ne ha preso il timone nel 2023 e adesso lo tiene saldamente in mano assieme al suo ristretto inner circle. Ha però stravolto il partito dalle fondamenta: il Pd non somiglia più a quello nato al Lingotto nel 2007.
Un tempo si cercava l’equilibrio tra Don Camillo e Peppone. Tra eredità democristiana e radici comuniste. Non era perfetto, ma ha tenuto l’Italia in piedi nei momenti più difficili. Ha offerto figure istituzionali solide e ha salvato la Repubblica più volte.
Il Pd ha subito una vendetta interna da parte della “ditta” storica, rottamata dal renzismo.
In nome della riscossa identitaria, si è piegato ad alleanze destabilizzanti con i Cinquestelle e con la sinistra radicale. Oggi, con Schlein, il Pd è diventato un’estensione del populismo progressista. E i sondaggi non lo premiano e lo inchiodano da molti mesi a una percentuale appena sopra il 20%.
Una minoranza interna continua a credere nel progetto originario. Ma ogni cedimento a Conte, ogni incertezza sulla Russia, ogni silenzio su Milano, allontana il Pd dalla famiglia socialista europea. I riformisti resistono, ma senza avere peso in quel partito.
Serve un confronto politico leale, aperto, duro e diretto. Anche se l’esito è incerto, contarsi è un atto politico fondamentale.
Se l’ala originaria dovesse perdere… non sarebbe la fine.
Potrà sempre pensare poi a ricostruire non una Margherita 2.0, non una rincorsa a Renew. Ma un nuovo soggetto riformista, europeo, moderno: una tenda riformista che sotto le sue falde coinvolga tutte le componenti liberal-democratiche della politica italiana, che recuperi lo spirito del Lingotto e lo rilanci. Ci vuole solo un po’ di coraggio.
A Venezia si fa melina
La “Stagione buona” dopo un anno ha lasciato il banco desolatamente vuoto: non sono maturati i frutti.
Qualche iniziativa di contorno, del “programma” non c’è l’ombra. Dei temi strategici per definire una politica amministrativa di respiro non c’è traccia: d’altra parte su molti di questi (Porto, gestione Turismo e annesse locazioni turistiche, ambiente, Laguna etc.) le differenze rischiano di essere troppo marcate.
Della candidatura non si parla ufficialmente; se ne parla molto fra gli addetti ai lavori, si mormora qualche nome sottotraccia. Pare si vogliano aspettare le elezioni regionali per definire un quadro che sembri accettabile.
La domanda da farsi è: accettabile per chi?
Se parliamo di coloro che tirano le fila, ai diversi livelli, della politica locale sono dispostissimi ad accettare una candidatura che si caratterizzi per un imprinting di solida caratura politica, che magari abbia passato molte stagioni su qualche scranno romano.
Perché non sono disposti a rinunciare a tutte le mediazioni che caratterizzano l’essenza stessa del fare politica. La loro comfort zone.
Se parliamo dell’elettore medio, visti i dati di un astensionismo crescente a tutti i livelli elettorali di questi ultimi anni (amministrative comprese), forse lui – l’elettore medio – si aspetta qualche cosa di diverso.
Magari forse una persona che sia espressione più diretta della vita di tutti i giorni, qualcuna di quelle figure che va a lavorare e dirigere un ufficio, un’azienda, che si assume responsabilità concrete per le decisioni che deve prendere e che se sbaglia paga in prima persona, senza troppi paracaduti e troppi cuscinetti ammortizzanti.
Una figura che non sia cruda e inesperta delle “cose di mondo” ma che sappia scegliere e guidare persone e che abbia un rapporto stretto con la vita della città. Che magari abbia avuto modo di raccontare un progetto per darle un futuro di respiro.
Certo, ammesso che si trovi una figura di questo tipo, in un quadro politico autoreferenziale che scoraggia ogni contributo dall’esterno, non sembra facile.
Intanto il tempo passa, inesorabile.



