Gufando, gufando ELEZIONI 31 MAGGIO: EDITORIALI IN TEMPO REALE (O QUASI) 2
4 Giugno 2015Delle campane e altri luoghi comuni
6 Giugno 2015Il turismo di massa che affligge Venezia ha poco o niente a che fare con la cultura e con una domanda di cultura, questo è evidente. Anche se nell’amministrazione che verrà, come si sostiene giustamente, sarà bene gestire cultura e turismo, governandoli comunque insieme attraverso un unico assessorato; se non altro per ricavare da chi usa la città risorse economiche per investire su un settore, quello culturale, che con questi chiari di luna, non si saprebbe altrimenti come finanziare.
Ma è bene che ci si convinca che il turismo di massa non possiede una vera domanda culturale, se per cultura intendiamo qualcosa di alto e di approfondito, che ha a che fare con il sapere e la conoscenza. L’ “elevare la qualità dell’offerta culturale”, frase ricorrente o slogan piuttosto, che si legge e si sente in molti programmi anche elettorali, se si pensa al turismo di massa è una contraddizione in termini per uno sforzo inutile. Per governare questo turismo ci vuole solo una perizia tecnica rivolta ai flussi, ai numeri, alle nude cifre. Potrebbe non bastare ma il terreno è solo quello.
In generale il cosiddetto turismo di massa, soprattutto per ciò che riguarda i turisti italiani della Domenica e dei quattro cinque ‘ponti’ all’anno, si manifesta come partecipazione a un rito collettivo che richiede di andare laddove vanno tutti, e per diverse ragioni. Una ragione dell’andar dove van tutti esula dal turismo su Venezia ma va citata per inquadrare il fenomeno: è la ragione dell’andar dove van tutti perché in quel luogo ci si può far vedere da tanti, vedere tanti, esibire tra tanti. Questo vale molto per il balneare e per la montagna invernale dove l’essere fra tanti in massa ha qualcosa di narcisistico ed esibizionistico come il mostrare il corpo, guardare quello altrui e il farsi ammirare nelle evoluzioni sugli sci, certo aiutati dalla sensualità che può dare l’onda salata del mare e il bianco cristallino della neve. Una splendida spiaggia deserta e un magico fuori pista solitario con gli sci non rientrano nella domanda di questo tipo di turismo, ci siamo capiti.
Invece il rito collettivo per i luoghi e per le città a sua volta c’entra meno con questo narcisismo corporale che ha bisogno della quantità ed ha un’altra molla potente: il rito collettivo per città e luoghi richiede imperiosamente di andare dove vanno tutti in massa perché il luogo è per prima cosa molto, molto, molto famoso; e in più è strano, diverso, curioso, stravagante, “unico al mondo” e il virgolettato non è il solito vezzo. Venezia è infatti il bersaglio migliore al mondo con questi requisiti. E’ infatti l’unica città che soffre del turismo giornaliero; e dico città, mentre il giornaliero interessa anche mete non cittadine come il mare e la montagna, anche estiva, o l’evento, la fiera, l’esposizione, la mostra e per queste cose domenicali le code in autostrada e le resse nei treni le conosciamo bene. Ma come città con queste dimensioni Venezia è assolutamente l’unica in quanto meta di pendolarismo giornaliero. Il turismo mordi e fuggi, quello che sta quattro ore in città vuole proprio solo e soltanto questo: straviarsi, stordirsi, direi quasi trastullarsi con la città che sembra strana, finta, un po’ buffa, teatrale, con ponti, canali e gondole, senz’auto e con acqua tutto attorno, con l’aggiunta prepotente e comunque irrinunciabile di San Marco e Rialto; che in questo, caso brutti o belli che siano ( il pendolare non se lo domanda neppure perché non conosce il bello), sono semplicemente sfondi molto, molto, molto famosi, ai vertici mondiali come fama a contendere il primato alla Tour Eiffel e al Colosseo.
Ci si faccia caso, I musei e le gallerie e gli interni dei palazzi a Venezia hanno una percentuale bassa di presenze rispetto ai turisti che stanno solo per strada e che non chiedono altro, appagati, che starci; e questo perché è la tipologia stessa di Venezia che è percepita come un museo a cielo aperto, che rende quindi inutile, superfluo l’entrare in un museo vero che per il visitatore un pò rozzo è un controsenso ( un museo dentro a un museo si è mai visto?).
Fateci ancora una volta caso, ma gli Uffizi a Firenze e i Musei Vaticani a Roma hanno cinque, dieci volte le presenze delle gallerie dell’Accademia veneziane. Semplicemente perché Firenze e Roma sono bellissime nell’insieme, affascinanti nel paesaggio urbano, ma non sono città strane attrattive dall’esterno per la loro tipologia ‘diversa’, ed anche qua il virgolettato è voluto. Infatti non attraggono se non in misura ridotta o comunque minoritaria i giornalieri pendolari che sono quelli che a Venezia costituiscono invece il dis-valore aggiunto che la massacra, essendo i pendolari i tre quarti delle presenze complessive. Perché Venezia ha un’attrattiva essendo qualcosa che si stenta a inquadrare nella modernità, con la vita, sempre di massa, che si fa nella propria città. E questo la massa chiede, un’evasione giornaliera dove tocchi per un attimo con mano il diverso e il famoso, che ti dà l’ebbrezza di essere qualcosa e qualcuno; come quando incocci l’attore celebre per strada e ti fai fotografare con lui. “ Ho visto per strada Tom Cruise, l’ho quasi toccato” equivale a dire “sono stato a Venezia, l’ho toccata”. Per tornare poi ad essere massa a casa propria il giorno dopo, numero, anonimato. E ricominciare, come una vera e propria dipendenza, con qualche altro rito collettivo ( “domenica si va all’Expò”, “domenica si va al Vinitaly”, “domenica si va a Sottomarina”, “domenica si va alla Nave de vero”)
E’ quindi inutile che l’assessore alla cultura promuova qualcosa per questa massa, perché il ‘qualcosa’ questa massa non lo chiede e non lo vuole, è appagata dal nome del luogo e dall’esserci comunque.
Vorrei fugare il sospetto che questa considerazione abbia qualcosa di snobistico e di elitario. Qualcuno potrebbe obiettare che si spara sulla croce rossa visto che il pendolare è tra le altre un turista più povero ( ma sarà vero?) che non può permettersi il pernottamento ( ma sarà proprio vero?). Sono comunque queste delle considerazioni di tipo sociologico, se vogliamo anche banali e semplice a farsi da chi, come nel mio caso, sociologo non è ma si limita a dire con un po’ di spirito critico ciò che vede, a prendere atto di ciò che vede. Il turista di massa pendolare a cui penso io quando lo osservi bene alle undici della mattina appena sbarcato già sudato dal treno proveniente da Milano o Bologna ha scritto in faccia essere un lettore del settimanale ‘Chi, e di non perdersi una puntata del ‘grande Fratello’ televisivo, gli leggi in faccia il non potersi permettere il Suv ma anche l’invidia per chi ce l’ha. La orrenda chincaglieria e paccottiglia dei negozietti con luce al neon anche di giorno, spuntati ovunque a Venezia negli ultimi anni e affidati a ‘schiavi’ indiani e bengalesi che li presidiano 24 ore su 24, è un vero e proprio ‘selfie’ di questa massa, l’esatta rappresentazione del loro livello intellettuale. Che poi questa massa esprima a modo suo una cultura o meglio sia di per sé un fatto culturale, nell’accezione molto ma molto ampia di cultura, ci può anche stare, se è vero che qualsiasi fenomeno sociale è anche culturale; come si parla infatti di cultura della violenza o cultura della droga e via dicendo, dove per cultura si intende il costume e la trasmissione di certe conoscenze, astenendosi dal valutarle moralmente o qualitativamente.
Sui soggetti portatori sani di questa nuova cultura di massa che, aggiungo io, ha in Venezia uno sfogatoio privilegiato, aveva detto più di qualcosa lo scrittore Baricco qualche anno fa. Li aveva definiti “ I nuovi barbari” ( del turismo di massa a Venezia non aveva parlato, l’adattamento è mio). Ci fu sulle pagine di Repubblica, confluito poi in un libretto, un dialogo serrato tra Baricco e il giornalista veterano Scalfari su questi nuovi barbari. Semplificando molto, ma per capirci, Baricco sosteneva che questa massa volgare, che tra le moltissime cose di massa e classicamente conformistiche fa poi anche turismo di massa, è portatrice a modo suo di una nuova cultura; che noi, di vecchia cultura in qualche modo elitaria, oggi sinceramente aborriamo ( come l’interlocutore Scalfari aborriva); ma che domani, sempre secondo Baricco, potrebbe diventare egemonica, riuscendo ad elevarsi assorbendo la cultura vecchia e i suoi valori, producendo in definitiva un nuovo mix culturale. La metafora voleva dire che come i barbari ‘storici’ nel tardo impero romano erano stati distruttivi, incivili, ma assorbendo la cultura che li ha preceduti, hanno prodotto nuova civiltà, anche i nuovi barbari potenzialmente potrebbero fare altrettanto. Leggendo questo dialogo stavo dalla parte del dissacrante Baricco perché di solito apprezzo chi sottolinea verità spiacevoli e cerca di farle accettare ( anche a sé medesimo, perché Baricco si sentiva anche lui ovviamente ‘altro’ dai barbari che con certosina precisione delineava).
Ora, tornando a noi, non esorcizzo quindi i barbari che invadono Venezia capendo nulla di Venezia, accetto criticamente che esistano. Attendo speranzoso la loro nuova cultura; ma nel frattempo per Venezia siamo ancora alle loro semplici invasioni distruttive. In più dicono che l’affogamento turistico della città, ai limiti dell’asfissia, non dipenda dai, si fa per dire, miti turisti residenziali di più giorni, ma soprattutto da loro, i pendolari, quando vengono in giornata a ‘mordere per poi fuggire’ nella grigia e anonima casa da dove sono partiti in mattinata.
Al prossimo assessore alla cultura ( e al turismo, sperando sia lo stesso) vorrei dire allora che di loro, dei barbari, non si preoccupi se non di arginarli, senza concedere troppi carnevali e capodanni in piazza, veri inviti a nozze per l’orda. E vorrei dire che semmai si preoccupi di farsi pagare da loro per ‘ l’usa e getta’; e che pensi infine, anche attraverso ai soldi pretesi dai barbari, all’offerta per la nicchia culturalmente più alta ( che poi a Venezia è comunque numericamente piuttosto consistente, a sua volta una piccola spelonca più che una nicchia). Starà ai nuovi barbari, se vorranno, mentre cercano di devastare, accorgersi che forse c’è un qualche valore che aleggia e, mentre balbettano, cominciare lentamente a parlare la vecchia lingua colta per poi produrre una nuova lingua colta. Come accadde dopo la caduta dell’impero. E come le lingue ‘volgari’ che ne seguirono secoli dopo.