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27 Gennaio 2016
La mamma dei disgraziati è sempre incinta. Che sia turca o canadese, di fede cattolica o islamica, è irrimediabilmente feconda. Proliferano i soggetti abietti, di ogni credo e di ogni cultura. I fatti di Colonia (la violenza su gruppi di donne, da parte di numerosi islamici, avvenuta circa un mese fa) lo dimostrano. La violenza sulle donne, però, non ha colore né etnia di appartenenza. È violenza. Punto. Bruto, cieco abuso di forza da parte di qualcuno che ritiene di poter invece esercitare un potere assoluto – acquisito, chissà, per un diritto ancestrale – su qualcun altro. Ci risiamo col politically correct , si commenterà. E ancora: rieccoci col solito buonismo spinto, che generalizza la violenza attribuendole, per non far torto a nessuno, una matrice universale. E quindi: si tratta di “islamici bastardi”, rimasti all’età della pietra, che si rifiutano di attribuire alle donne lo statuto di esseri pensanti dotati di una loro capacità di scelta, anche in tema di amore e di sesso.
Il fatto è grave e non metto in dubbio che si abbia a che fare con frange estreme di una sottocultura intrisa di pregiudizio, di arroganza e di erronea interpretazione dei testi religiosi. Quello che, però, mi sento di dire è che noi, e nella fattispecie il maschio bianco occidentalcattolico, così orgoglioso della sua identità e, nel contempo, della sua alterità culturale nei confronti del maschio di altra etnia, non può salire in cattedra. Non può dare istruzioni su come si trattano le donne, su come si gestisce un rapporto d’amore e su cosa significa il rispetto delle scelte delle donne. Sono inezie, forse, gli omicidi sempre più frequenti di donne – talvolta con figli – che scelgono di troncare una relazione? Sono quisquilie le percosse, gli occhi neri, le braccia rotte di donne coraggiose che si oppongono ogni giorno, sia pure con la sola personalità, a maschi che vogliono imporre la propria dittatura? È forse un indicatore di civiltà la paura, di tante ragazze, di fare jogging nei parchi per non incorrere nel pericolo della violenza in agguato dietro il primo cespuglio? È un segnale di libertà, per una donna, il non poter indossare, di notte, in metrò o per strada, un abito che metta in risalto la propria femminilità? E non è forse deprimente sentirsi dire, in caso di stupro, “te lo sei cercato, potevi evitare la minigonna, i jeans sono più sicuri”, quasi a voler sottolineare che da vittima diventa aguzzina provocatrice dell’irrefrenabile esplosione di testosterone? Lo so, lo so, sembrano discorsi da vecchia femminista i miei. E mi piacerebbe che fosse così. Certo, non si possono negare anni di conquista, di cambiamenti di costume, ma il desiderio, da parte dell’uomo (o per meglio dire, di una percentuale importante di uomini) di colonizzare il corpo della donna – e spesso anche la sua anima -non si è spento. E con esso la violenza che ne è l’epifenomeno.
I fatti di Colonia, lungi dal farci sentire migliori, dovrebbero indurci a ragionare e a prendere atto di una realtà che è cambiata troppo poco, malgrado le conquiste culturali e le dimostrazioni di forza che le donne sono state in grado di dare nel corso dei decenni. È una questione di banale ignoranza che, all’atto pratico, cessa di essere banale e diventa violenza. Occorre prenderne atto. Si diventa migliori ricercando nelle proprie contraddizioni le radici del danno e della sofferenza. Si diventa migliori, non certo assolvendosi, pensando che ci sia qualcuno più incivile di noi, ma sospendendo il giudizio, educando all’autocritica e ai valori del dubbio, del rispetto e della tolleranza. Forse questo potrebbe rendere più sterile la mamma dei disgraziati ed evitare che si ripetano fatti gravi come quelli di Colonia? Non lo so. Lo spero.