Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione, quindi, è eccellente.
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26 Ottobre 2021Perché rivangare, a distanza di 15 anni, una storia ormai da tempo conclusa e cancellata dalla memoria collettiva? Perché tornare a parlare di un movimento, il No Dal Molin, che – sia pur dopo aver riscosso un inaspettato e improvviso successo – si è spento definitivamente, facendo apparentemente tornare il luogo dove si era sviluppato, Vicenza, la sonnacchiosa e apatica cittadina di sempre?
L’occasione è un bel libro di Marco Palma, all’epoca portavoce del Movimento, che racconta, in forma di romanzo, la nascita e l’evoluzione del Movimento No Dal Molin, nato contro il progetto di costruzione di una nuova base militare statunitense a due passi dal centro di Vicenza e dalle sue architetture palladiane, in un’area piuttosto ampia in cui un tempo sorgeva un aeroporto, il ‘Dal Molin’ per l’appunto.
Una prima risposta del perché valga la pena tornarci su è che quello del No Dal Molin non è un unicum, ma rappresenta uno dei tanti casi in cui un Davide si scontra contro un Golia, in cui una comunità fino a quel momento pacifica e tranquilla si risveglia, il giorno dopo, pacifista e battagliera, mobilitandosi in modo assolutamente imprevedibile, arrivando a portare in piazza centocinquantamila persone di tutte le età, a istituire un Presidio Permanente durato 6 anni e ottenere una risonanza internazionale.
‘Comunità’ però non rende appieno l’idea, ed ecco allora che il romanzo ci fa conoscere le persone dietro, anzi dentro, questo movimento: il pensionato comunista veterano delle manifestazioni; la studentessa che pensava solo a studiare e che viene talmente assorbita dal movimento da diventarne la portavoce e contagiare, con il suo entusiasmo, genitori e nonni; o quel ragazzo sì impegnato, ma che non aveva mai partecipato a un corteo in vita sua. E le persone dall’altra parte della barricata: il poliziotto della DIGOS, il generale della caserma Ederle, l’ambasciatore americano, personaggi che risultano in qualche modo simpatici e con argomentazioni valide, dal loro punto di vista. Perché le ragioni sono (quasi) sempre da una parte e dall’altra, e non si può prendere posizione o fare alcun ragionamento se non si parte da questa consapevolezza e non si cerca di mettersi nei panni degli altri.
D’altra parte anche da ‘questo’ lato della barricata non si fanno sconti a nessuno: né ai sindacati che tentano di appropriarsi del movimento, né ai soliti personaggi che bazzicano le associazioni come l’attivista seriale reduce dagli scontri del G8 di Genova, la ragazza scorbutica con i capelli rasta ‘che ha sempre la verità in tasca’, il disincantato, la pasionaria idealista e ingenua, il leader pacato e saggio che sa mediare e convincere. Ma più di tutto protagoniste sono le tante persone che scoprono di avere un’opinione, che ci sono tanti altri che la condividono, e che hanno il diritto di manifestarla.
In questo caso si trattava di difendere la propria città, il proprio territorio, e per questo al movimento hanno aderito veterocomunisti e leghisti, persone che non si erano mai interessate di politica, studenti e pensionati, tanti pensionati, e poi famiglie intere, che sfilavano con i passeggini. Sempre in modo festoso e mai violento, sempre con l’immancabile damigiana di vino rosso che passa di mano in mano, anche quando si tratta di occupare la Basilica Palladiana o boicottare i cantieri della base.
Anche per questo l’invito alla lettura è rivolto anche a quelli che ce l’hanno con ‘chi sa solo dire NO’. Perché c’è ‘no’ e ‘no’: perché a volte il ‘no’ è l’unica risposta possibile, ed è fuorviante impostare il dibattito su una controffensiva, costringendo chi si oppone a proporre a tutti i costi un’alternativa. A volte – non sempre, per carità – l’unica alternativa ragionevole è un semplice ‘no’ senza altre condizioni, ma con tanti validi argomenti. E non bisogna vergognarsi di dirlo, per paura di passare per ‘bastian contrari’, se si è convinti di opporsi a una proposta assurda, dannosa o inutile. Come nel caso del no alle Grandi Navi, che se fosse stato messo in atto vent’anni fa ora non ci porremmo i problemi degli investimenti perduti e dei posti di lavoro a rischio. Ma questa è un’altra storia, che merita un capitolo a sé…
Quella del ‘No Dal Molin’ è infatti la storia di tanti altri movimenti, e le dinamiche descritte nel libro risulteranno familiari a chiunque sia stato coinvolto nell’associazionismo: le assemblee, la creazione di gruppi di lavoro, l’entusiasmo, la frustrazione, il senso di invincibilità e di appartenenza a una comunità che ti fa uscire dall’isolamento, lo stare con persone anche molto diverse da te ma che condividono le tue convinzioni e che – che si sia d’accordo o meno – stanno comunque facendo qualcosa non per sé ma per quello che ritengono essere il bene comune, che va al di là del proprio stretto interesse.
Scommetto che, sempre che siate arrivati a leggere fin qui, vi starete chiedendo: ‘Ma com’era poi finita? Quella famosa caserma l’hanno costruita, alla fine, o no? Forse no, me ne ricorderei…’
Ebbene, la risposta sta nel titolo, che è tristemente ironico e un tantino fuorviante: ‘La guerra non parte da qui’ è un auspicio, una convinzione, che però si è scontrata con la cruda realtà. La guerra è partita da lì, da qui, dalle basi sparse tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, ha provocato quello che tutte le guerre provocano, e cioè gettare le basi per altre guerre.
Le ragioni dei singoli e delle comunità infatti hanno potuto poco, mentre sono state le ‘Ragioni di Stato’ a prevalere determinando il corso della storia: la coerenza di un governo di centrosinistra nel rispettare gli impegni presi dal precedente governo di centrodestra, mista alla ‘riconoscenza’ che tutti noi europei dovremmo mostrare nei confronti degli americani che ci hanno salvati dal nazifascimo e poi fatti risollevare dalle ceneri grazie al Piano Marshall. Come non fossero già stati ampiamente ricompensati dal nostro totale appiattimento culturale e asservimento politico durati ormai troppo tempo…
Da un lato quindi l’imperativo della ‘guerra al terrore’ e dell’esportazione della democrazia, dall’altro la forza possente ma fluida e fragile di una moltitudine, fatta di tante persone e anime diverse: un braccio di ferro impari tra la massima potenza mondiale da una parte, e un comitato, sia pur numeroso, di una piccola città di provincia dall’altro.
Eppure chi cercava di opporsi, per pacifismo o ambientalismo o campanilismo, qualcosa è riuscito ad ottenere: la caserma è stata costruita, è vero, con il suo impatto visivo e ambientale e la distruzione disseminata in Medio Oriente; ma è anche vero che la pista di volo è stata smantellata, e soprattutto che metà dell’area militare su cui la base avrebbe dovuto estendersi è stata invece smilitarizzata e convertita in un Parco, il Parco della Pace, i cui primi alberi sono stati piantati proprio dagli attivisti del Movimento, e che sta per essere consegnato alla città.
E quindi, riprendendo la domanda iniziale: perché tornare su questa storia, dopo 15 anni?
Perché dopo che le guerre, anziché fermarsi, sono invece continuate, anche se in forma meno sensazionalistica e più strisciante; dopo che i militari americani se ne sono andati dall’Iraq prima e dall’Afghanistan poi, con le conseguenze devastanti a cui abbiamo assistito; dopo che la stessa democrazia che doveva essere esportata si è infranta contro le mura del Campidoglio assaltate da cittadini statunitensi…dopo tutto questo, cosa resta? Restano parziali sconfitte e vittorie dimezzate, ma soprattutto restano le storie e le persone: restano i pensionati, gli studenti, gli impiegati e gli operai che hanno deciso, 15 anni fa, di non restarsene seduti sul divano ma di scendere in piazza o picchettare di notte un presidio sotto la pioggia. Restiamo noi, che con le nostre idee, se basate su valide argomentazioni e solidi principi, possiamo cercare, sempre e comunque, di fare la differenza. Perché ogni tanto Davide riesce – se non proprio a batterlo – quantomeno ad impedire che Golia imperversi ciecamente, come invece farebbe se non trovasse qualcuno ad opporsi.