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13 Febbraio 2023C’era una volta il Ministero della Pubblica Istruzione. Incredibile ma, almeno nelle intenzioni, l’istruzione che si voleva impartire alle giovani generazioni di allora, doveva essere un’istruzione pubblica, accessibile a tutti, un’istruzione, cioè, che non facesse differenze tra ricchi e poveri, belli e brutti, bianchi e neri; ma, soprattutto, doveva essere un’istruzione gratuita, veicolo di emancipazione e di crescita anche per chi partiva da situazioni di svantaggio e di deprivazione. Lo Stato aveva, tra le sue priorità, quella di sostenere e di investire fortemente nelle scuole pubbliche, perché è da queste che sarebbero uscite le future classi dirigenti. Perché ogni studente raggiungesse risultati ragguardevoli, era necessario fare un distinguo tra le diverse situazioni di partenza, affinché i vissuti familiari non incidessero più di tanto nei percorsi formativi e non generassero, a loro volta, insanabili diseguaglianze tra gli uni e gli altri. Si può dire che fosse proprio questo il principio ispiratore, quasi un imperativo categorico, che guidava la scuola pubblica: tener conto delle differenze strutturali in ingresso dei singoli studenti per offrire ad ognuno equivalenti opportunità di successo.
Da un certo momento in poi, però, le scuole private – in particolare quelle confessionali – hanno fatto sentire il proprio peso e, per intuibili ragioni elettorali e di compromesso tra forze politiche, i finanziamenti di Stato hanno subito una virata che ha penalizzato le scuole pubbliche. Sintomo di tale svolta è stato il passaggio da Ministero della Pubblica Istruzione a MIUR (Ministero di Istruzione, Università e Ricerca). L’istruzione non era definitivamente più pubblica ma ne venivano ratificate le diverse sfaccettature (e sostenuti i diversi padroni). Fino ad arrivare alla recentissima svolta di questo governo che ha aggiunto la tanto discussa accezione “merito”. Ora, l’esperienza ci insegna, non dovremmo tanto soffermarci sulle questioni nominalistiche e farne delle polemiche che invece rischiano di farci perdere di vista i problemi più importanti. Tuttavia, se facciamo nostra la lezione di Calvino secondo il quale le parole sono una dirimente espressione di pensiero e di scelte di vita, occorrerebbe allora riflettere sulle intenzioni che si celano dietro a parole nient’affatto casuali.
Torniamo ad oggi. Non ho ancora capito qual è l’accezione che il legislatore ha voluto dare alla parola “merito”. Vuoi vedere che prima d’ora non si era sufficientemente meritocratici? A dire il vero, non mi risulta. Anzi, fatte salve le opportune compensazioni da offrire a chi ha bisogno per i più svariati motivi, il merito è stato sempre riconosciuto e premiato nella scuola. Certo, si poteva fare di meglio, tutto è perfettibile. Tuttavia le scale valutative dei docenti hanno sempre tenuto conto di criteri improntati alla massima oggettività. Le ragioni dell’insuccesso vanno ricercate altrove, in primis nella difficoltà, da parte della scuola, di colmare quegli scarti economici e sociali che determinano rendimenti tanto diversi. E tutti a vantaggio dei ceti privilegiati.
Come si fa, in una scuola dell’obbligo, tanto per fare un esempio, ad accanirsi verso chi è stato già penalizzato dalla sorte per appartenere a un contesto poco favorevole allo studio? La scuola ce la mette tutta, ricorrendo, talvolta, al volontariato, ma il merito, inteso come categoria astratta, in questi casi, deve aprirsi a variabili ben più complesse. Questo, per capirsi, non significa mandare avanti gli asini e condannare alla mediocrità le future classi dirigenti. Significa piuttosto difendere il principio di una scuola democratica che sia in grado di offrire pari opportunità, nella consapevolezza che il merito non equivale a selezione selvaggia e indifferenziata.
Solo dopo aver messo tutti nelle condizioni di apprendere si può procedere a una valutazione meritocratica che sia in grado di riconoscere i livelli diversi di apprendimento. Se poi, per merito, il nostro ministro intende il mero riconoscimento di conoscenze e abilità, a prescindere dalle situazioni di partenza, allora ci muoveremo in una scuola incapace di riconoscere le capacità reali e potenziali dei singoli studenti. E riprenderà ad essere, come ai tempi che si ritenevano definitivamente superati, una scuola di sperequazioni e di diseguaglianze. Allora, merito sì, ma con juicio!