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Subito dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, in occasione di un incontro pubblico con una sua giovane fan, la presidente Meloni dispensava consigli su ciò che deve fare una donna quando vuole raggiungere un obiettivo importante. In poche parole, suggeriva alla sua interlocutrice di perseguire i propri ideali avvalendosi soprattutto della propria ambizione e della propria forza volitiva, e di prendere esempio da lei che, ancorché non laureata, aveva sfondato il famoso soffitto di cristallo. Ergo, la laurea, secondo la presidente, non è poi così dirimente se si vuole avere successo, tanto che a dispetto di tanti aspiranti presidenti del consiglio laureati e di tante donne, politiche di professione, titolari di brillanti carriere universitarie, lei, con una semplice maturità di scuola secondaria superiore, è diventata una donna potentissima, prima premier in Italia.
A riprova del fatto che la laurea non serve, rimanendo sempre ai vertici del potere, possiamo citare altri autorevoli esempi. Un vicepresidente del consiglio non laureato, per esempio, che dispensa giornalmente sermoni sui social, o un ministro che ha conseguito a 42 anni la laurea presso l’Unicusano dalla quale, a giudicare dalle sue uscite e dalla sua credibilità, non ha ricevuto grandi vantaggi nella costruzione di un sapere complesso. Sappiamo bene che non è un titolo universitario che determina l’efficacia di una strategia di governo. Ciò che preoccupa è, invece, lo svilimento al quale si vogliono condannare le università italiane. Per meglio dire, sono le università di tanti angoli strategici di mondo sotto l’attacco delle destre al potere, l’America di Trump e l’Ungheria di Orbán in testa.
L’università è il luogo del pluralismo per eccellenza, il luogo del non consenso, della ribellione. È la sede del confronto pacifico tra posizioni, laboratorio di idee dove ogni teoria ha il proprio diritto di cittadinanza e la problematizzazione della realtà trova linfa vitale. Sia che si parli di Wittgenstein e delle sue teorie sul linguaggio, sia che si parli di fisica quantistica. Umberto Eco diceva che “le università sono un luogo in cui è possibile un confronto razionale tra diverse visioni del mondo, tanto che, sin dal loro istituirsi, formarono la prima identità culturale europea, crogiuolo di un’identità internazionale”. Il filosofo, peraltro, salutava con gioia il progetto Erasmus, proprio per la sua capacità di avvicinare “soggetti provenienti da mondi diversi che, mescolandosi, non cedono alla seduzione di qualsivoglia nazionalismo”.
Ma perché tanta ricchezza culturale spaventa il potere? Perché reprimere i movimenti studenteschi? Perché censurare importanti intellettuali non allineati ed estrometterli dai luoghi apicali della cultura (è di questi giorni la sostituzione ingiustificata del professor Montanari alla direzione della fondazione Ginori di Firenze con un ex assessore della giunta Alemanno)? Perché tanta paura dei Saviano, degli Scurati, dei Canfora? Perché tanta ansia di affermare un’egemonia culturale della destra? Perché ridurre i fondi alle università pubbliche? Perché favorire il proliferare delle università telematiche, che fin dal secondo governo Berlusconi si sono moltiplicate, accompagnando l’ascesa di discutibili carriere accademiche di gente vicina a questa destra di potere? È presto detto. Perché l’università è la culla del pensiero critico. L’università è invisa alle destre perché nutre la democrazia e la tolleranza. Un’università che tende ad unificare le differenze alimenta lo spauracchio della sostituzione etnica, favorisce un approccio sovranazionale, con tanto di rischio per l’idea stessa di nazione. In quanto ambiente aperto e stimolante, incoraggia la fluidità di genere, mettendo in discussione una visione rigidamente binaria del sesso.
La repressione del dissenso, sappiamo bene, si può esercitare in tanti modi, ma quello più subdolo, ancora più della forza fisica, è impedire il flusso di idee, lo scambio di opinioni e di visioni del mondo. Sopprimere le differenze è funzionale a un progetto totalitario perché questo rende più facile l’adesione al pensiero unico, quello veicolato da altre agenzie educative che operano al di fuori dalla scuola e dell’università: giornali e agenzie di stampa detenuti da imprenditori compiacenti, una tv di stato sempre più asservita al governo, università private telematiche, semplificate nelle proposte di studio, poco qualificanti e per lo più finanziate da soggetti vicini ai luoghi di potere. Il ministro Gentile sosteneva che i professori universitari dovevano portarsi nelle aule tutta la loro anima fascista per trasfonderla agli studenti. Il rischio di un ritorno a un ministero post-gentiliano non è fantapolitica. Malgrado ciò, l’ordinamento italiano prevede oggi autonomia all’interno delle università, grazie anche all’articolo 33 della nostra costituzione che dichiara che arti e scienze sono libere e che libero ne è l’insegnamento. Un articolo importante e prezioso. Che va difeso con lo studio, la conoscenza e con un occhio critico contro le menzogne.
Hanna Arendt, un’intellettuale conosciuta per i suoi scritti sul potere, sul male e sul totalitarismo, sosteneva che le destre hanno paura di magistratura e università e che quando queste vengono attaccate è in pericolo l’idea stessa di democrazia. La repressione del dissenso reca con sé i rischi del fascismo. Che non è quello dell’olio di ricino, ma è un virus che muta e, proprio per questo, è incontrollabile. Meglio non abbassare la guardia.