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26 Settembre 2022
FUTURO POST ELEZIONI La scommessa del Terzo Polo
11 Ottobre 2022Il dopo voto che accompagna l’Italia ormai da venti anni è come il “giorno della marmotta”: il ritorno degli stessi temi, delle stesse discussioni, delle stesse persone perfino, che si fa prima comico, poi farsesco fino ad apparire tragico.
La legge elettorale viene indicata, dal 1994 in poi (con l’eccezione forse delle elezioni del 2001), dagli sconfitti come una causa fondamentale del risultato negativo e, a seguire, dei mali del paese.
Il Rosatellum oggi in vigore (dopo i vari Mattarellum, Porcellum) viene messo sulla graticola ma a differenza di altri sistemi elettorali maggioritari, come quello inglese, non consente di raggiungere una maggioranza netta di seggi con una bassa maggioranza dei voti: alle elezioni inglesi del 2005, Blair conquistò la maggioranza schiacciante dei seggi con il 35,2% dei voti, solo 800mila voti in più dei conservatori fermi al 32,4.
In Italia nel 2018, come si ricorderà, il 37,2% del centrodestra non garantì una maggioranza a fronte del 32,6% dei 5S e del 22,9% del centrosinistra.
Possiamo intanto dire che il risultato elettorale non è dipeso da un trascinante consenso popolare per Giorgia Meloni che si è fermato al 26% e che il centrodestra non ha sfondato il fatidico muro del 45%.
Fratelli D’Italia ha preso la più bassa percentuale di sempre per un partito che ha vinto le elezioni assicurandosi però con la coalizione una maggioranza chiara, ma non strabordante alla Camera e Senato
(i 2/3 dei seggi).
È evidente che la Meloni ha mangiato la Lega di Matteo Salvini (che è uno dei grandi sconfitti del 25 settembre) e anche Forza Italia del vecchio Silvio Berlusconi; dunque, si assiste a una diversa distribuzione dei pesi interna alla destra ma non a una sua clamorosa espansione.
Se il centro-destra ha vinto non è perché il baricentro elettorale si è spostato verso destra, ma perché la destra ha una leader che ha saputo sfruttare la logica della legge elettorale (che premia le alleanze larghe), mentre la sinistra ha un leader che non ha nemmeno provato a sfruttarla, quella logica.
Le forze politiche per lo più ritenute populiste o sovraniste – FdI, Lega, Cinque Stelle, Italexit, partitini comunisti – hanno totalizzato circa il 55% dei consensi, mentre i partiti più “draghiani” – PD, Terzo Polo, +Europa, Impegno Civico – hanno raccolto solo il 30%, poco più della metà. Insomma, ha perso l’establishment e hanno vinto i partiti antisistema.
Era già successo nel 2018, quando la somma di Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia e populisti minori aveva superato il 57%.
I Cinque Stelle in questa tornata non solo superano il 15% (pur avendo più che dimezzato i voti del 2018) avvicinandosi al PD, ma lo fanno autodefinendosi come “la vera sinistra”, non importa se legittimamente oppure no.
E poi c’è il TerzoPolo (Azione-Italia Viva) il cui risultato elettorale è stato più che soddisfacente: 7,8% pur subendo una quota del richiamo al “voto utile”.
Essere passati da quasi niente (si ricordino qui le battute sui vari 2% che venivano accreditati alle due componenti) all’otto per cento in un solo mese – avendo peraltro perso per strada l’ottimo 2,8% di PiùEuropa (che consolida il suo storico 2,6%) – non è un risultato politico banale, anzi probabilmente è un risultato senza precedenti: non era mai successo che le forze politiche che appartengono alla famiglia liberale europea raggiungessero il 10,6%, suddiviso tra +Europa e Azione-Italia Viva.
E questa è certamente la novità più rilevante delle elezioni politiche 2022 perché apre prospettive e proiezioni interessanti.
Tanto più che il voto del 25 settembre non è il punto di arrivo di Renzi-Calenda, ma soltanto il primo passo di un progetto più ampio, europeo e atlantista, liberale e democratico, che i due dioscuri proveranno a realizzare nei prossimi mesi e anni.
Anche la prospettiva politica è migliore: nelle prossime elezioni locali il Terzo Polo potrà allearsi col PD solo alle sue condizioni, altrimenti andrà in solitaria (e in alcuni casi con liste moderate) lucrando sugli elettori riformisti che abbandoneranno il centrosinistra se si riforma l’alleanza PD-Sinistra-Verdi-Grillini.
il prossimo passo è scontato: fondere Azione e Italia Viva in un unico partito, passando prima da una forma federativa, aprendo a tutte le espressioni della società civile e non solo nel ruolo di fiori all’occhiello.
Il rifiuto pregiudiziale delle posizioni populiste e sovraniste, programmi e buon governo (concretezza e competenza) senza velleità di tatticismi parlamentari.
E, nonostante qualche equilibrismo verbale, l’identità dovrebbe essere chiaramente liberaldemocratica: Macron, che ha assorbito gli elettori popolari e socialisti, non ha definito il suo partito come tale, né verrebbe mai in mente di farlo ai liberaldemocratici inglesi o tedeschi.
Si potrebbe anche cominciare a definire cosa si intende con l’accezione “liberale” o, se si preferisce, “liberal-democratico”: parliamo di un’area politica che mette in testa ai suoi valori la libertà politica, economica e civile.
Nel Vecchio Continente questo si declina in europeismo, atlantismo, concorrenza, merito, garantismo, equilibrio e separazione dei poteri, intervento statale contenuto e, ovviamente, pluralismo e democrazia.
In Europa, chi si ritrova in questi ideali appartiene a Renew Europe, il gruppo parlamentare che include il partito di Macron En Marche (Renaissance), i liberali tedeschi, olandesi, belgi e dei Paesi nordici, Ciudadanos spagnoli e, anche se ormai fuori dall’Ue, i liberal democratici britannici.
Rimane da dire che il panorama non si completa se non proviamo a tracciare anche un abbozzo di analisi dell’esito elettorale del Partito Democratico.
il PD porta a casa un risultato davvero insoddisfacente lasciando sul terreno 800.000 voti con una percentuale della lista che si ferma al 19,1 rispetto a quello che era stato definito il suo peggior risultato di sempre (18,7% nel 2018) considerando che nel frattempo ha assorbito quel pezzo alla sua sinistra (Speranza e Bersani) che polemicamente se n’era andato prima delle elezioni del 2018.
La conseguenza immediata sono state le dimissioni del segretario Enrico Letta che poco più di un anno fa si era insediato con l’obiettivo di rafforzare la rappresentanza politica e sociale del suo partito.
E da qui si è immediatamente aperta una canea di discussioni sul futuro, su quale orizzonte si prospetta per quello che fino a oggi è stato il partito di riferimento dell’area del CentroSinistra italiano.
Come è potuto accadere?
Luca Ricolfi che da sempre cerca di interpretare gli sviluppi sociopolitici del CentroSinistra la legge così:
“È semplice. Il Pd non è un partito socialdemocratico, che si rivolge ai ceti popolari e ne interpreta i bisogni. Il Pd è il partito dell’establishment e dei “ceti medi riflessivi”, ossessionato da due soli temi: l’accoglienza dei migranti e le battaglie per i diritti civili. Dei diritti sociali gli importa quasi nulla, anche se in campagna elettorale ha dovuto fingere che gliene importasse qualcosa. In breve, è diventato un “partito radicale di massa”, come a suo tempo aveva profetizzato il filosofo Augusto del Noce immaginando il futuro del Pci.”
In buona sostanza, riportando le cose ad una lettura delle posizioni di questi ultimi mesi, il PD, dopo avere passato tre anni inseguendo il populismo grillino che avrebbe dovuto combattere, cedendo su ogni questione di principio e di programma in cambio di alleanze precarie e spesso abborracciate a livello locale, ha seguito fino all’ultimo la linea tracciata da Nicola Zingaretti (ispirato da Bettini e sostenuto dai vari Boccia, Franceschini e Orlando), cercando al tempo stesso di presentarsi come il principale sostenitore del governo Draghi, come se le due cose non fossero del tutto inconciliabili.
Alla fine: né carne né pesce.
E adesso c’è davvero un “campo largo” dove si sono aperte delle praterie per chi saprà coltivarle e seminarle.