RIGENERAZIONE URBANA Il vuoto di un articolo da rigenerare la prossima volta
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3 Luglio 2024Qualche settimana fa ha fatto parecchio scalpore la notizia che in una scuola media del trevigiano la professoressa di italiano, dopo aver consultato le famiglie di origine (sinceramente non ho capito se su iniziativa della stessa o su richiesta delle famiglie), ha esentato due studenti di fede musulmana dallo studio della Divina Commedia perché, ponendo Maometto tra i dannati, era offensiva del loro credo, e proposto a questi studenti un programma alternativo, nella fattispecie Boccaccio. Ne è nata una polemica, il coinvolgimento del Ministero, uno scaricabarile – more solito – tra la professoressa e la Dirigente Scolastica che si è dissociata (ha parlato di “iniziativa estemporanea” e non concordata) e un richiamo formale all’insegnante.
Due parole due sulla vicenda specifica e poi non ne parliamo più: Dante (e Boccaccio) alle medie? Ma davvero dei ragazzini delle medie sono in grado di affrontare questi testi? E se proprio si deve fare Dante, farai Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Ulisse, il Conte Ugolino.. ma devi proprio andarti a impegolare con il passaggio su Maometto che, credo, la maggior parte degli studenti italiani – chi scrive tra questi – non si è per niente filato (nemmeno alle Superiori)? Insomma, l’impressione è che si sia creato un pasticcio che si poteva facilissimamente evitare, anche senza sindacare sull’opportunità di proporre per forza Dante a degli studenti di una media inferiore.
Sia come sia, la professoressa ha inteso che evidentemente parlare di Maometto fosse importante e ha ritenuto di comportarsi come ha fatto. Ma quale che sia l’opinione di ciascuno sull’operato dell’insegnante, questa vicenda sottende una questione generale assai più intrigante. Mi ha fatto tornare alla memoria un reportage dalla Polinesia Francese che ho letto molti anni fa. Raccontava che i programmi delle scuole elementari, lì come in tutti i Territori d’Oltremare della Repubblica Francese, erano gli stessi che a Parigi o Lione. Circostanza comprensibile e garanzia delle pari condizioni di tutti i cittadini della Republique in quanto i Territori d’Oltremare sono parte integrante della Francia, che però comportava il paradosso che i ragazzini studiavano su un libro di storia che parlava di les Gaulois, nos ancêtres.. i nostri antenati Galli. E si interrogava sullo straniamento dei ragazzini, mingherlini, con gli occhi a mandorla e la pelle dolcemente brunita a ritrovarsi imposti come antenati i biondi e nerboruti irreductibles Gaulois con i quali l’unica liaison erano, al massimo, i fumetti di Goscinny & Uderzo.
Dunque, la questione posta involontariamente dalla professoressa è tutt’altro che peregrina. Perché implica un dilemma concettuale che oggettivamente esiste e si porrà sempre più, nel campo dell’istruzione. Vediamo di definirne i contorni. Uno dei problemi delle società multietniche, con cui altri Paesi si sono confrontati prima del nostro (spesso con risultati deludenti), è l’integrazione nella società di persone che provengono da altre realtà culturali, religiose, con usi e costumi assai diversi dai nostri. Va da sé che l’integrazione è tanto più importante e (forse) più possibile nei soggetti più giovani. Ne consegue che la scuola è uno degli strumenti più potenti e incisivi con cui perseguire questo processo. A questo punto però ci troviamo di fronte a un dilemma irrisolvibile: tanto più attraverso i programmi scolastici “italiani” si costruisce un vissuto, un immaginario collettivo, un sistema di riferimenti, una modalità di pensare e di esercitare lo spirito critico comuni, quanto più, cioè, si omologano i giovani studenti al nostro mondo, tanto più si impone un modello che in partenza è loro estraneo, si fa quindi una sorta di forzatura (esattamente come per i piccoli polinesiani e les Gaulois). Non c’è soluzione: o si integrano (ovvero, che suona meno bene ma è esattamente questo il concetto: si omologano) oppure si “rispettano” la loro identità e cultura familiare di base ma allora l’integrazione va a farsi benedire. Questione di lana caprina? Non direi.. in passato ci sono state, tanto per non fermarsi al casus belli da cui siamo partiti, polemiche infinite sul fatto che in certe scuole a Natale non si faceva il presepio, oppure si riformulavano i canti di Natale sostituendo la parola Gesù o altre trovate. La cosa ha scatenato le reazioni, in parte strumentali ma indubbiamente di una certa fondatezza, delle forze politiche di destra che hanno gridato allo scandalo perché “in casa nostra” non si sarebbe liberi di perpetuare usi e abitudini secolari. In effetti, d’istinto fa scalpore, esattamente come impressiona che in una scuola italiana ci si autocensuri sul padre della lingua italiana. Ma, in certe scuole, anche nel nostro territorio, dove gli studenti di provenienza straniera sono addirittura la maggioranza, siamo sicuri che abbia senso, financo sia possibile, imporre temi argomenti, credenze, usi che non si sono assimilati col latte materno? Non è, si badi bene, una questione astrattamente etica ma meramente utilitaristica: merita interrogarsi sui risultati di questa impostazione. Perché, se l’obiettivo è quello di costruire i concittadini di domani, cioè persone che partecipano a pieno titolo alla comunità, ne condividono gli obiettivi, il disegno di futuro, è imperativo categorico far sì che il processo sia efficace.
Per la verità, su un piano puramente astratto, la soluzione esiste: si chiama multiculturalismo. Esiste una sterminata produzione in merito, specificamente dedicata alla scuola e all’apprendimento che sostanzialmente prevede il meticciamento ovvero la costruzione di una cultura condivisa, che tenga dentro i valori e le visioni del mondo di tutti in dichiarata antitesi con l’etnocentrismo occidentale e i suoi pregiudizi (anche razziali). Che miri, in altre parole alla costruzione di una nuova identità, comune a individui di provenienze diverse. Quindi una scuola che riveda pesantemente i programmi (di storia, di filosofia, di letteratura..) in modo tale per cui ogni valore, anche il più fondante per una civiltà occidentale non sia proposto come universale, così rispettando l’humus culturale e familiare di ciascuno. Ora, qui bisogna intendersi: un conto è l’obiettivo, sacrosanto, di creare un’atmosfera di accoglimento, di positiva postura di accettazione e anzi di valorizzazione delle differenze tra usi e culture nei bambini. È certamente un’area di intervento importante e sulla quale si può e deve lavorare. Altra cosa è teorizzare di sostituire il sistema di valori occidentali, cosette come i diritti individuali, la democrazia, il primato del diritto, con un’identità universale peraltro ad oggi inesistente. Perché il modello di pensiero occidentale si concepisce come universale, o è tale o non è. È davvero pensabile una scuola in un Paese occidentale che non rifletta questa prerogativa fondante, ontologica, del proprio modo di essere? Non sono, quelli citati sopra, valori che dal giusnaturalismo in poi, consideriamo “non negoziabili”? La cartina al tornasole è proprio il caso della scuola trevigiana: lo studio di Dante sarebbe compatibile o no con una presunta cultura universale?
La questione inoltre è vieppiù complicata dal fatto che è un argomento strumentalizzabile come pochi altri dalla propaganda e dalla retorica politica. Perché, da destra, è facile (proprio perché c’è un fondamento argomentativo) gridare allo scandalo per ogni caso in cui è messa in discussione l’ortodossia dell’insegnamento e a sinistra si presta maledettamente a scatenare l’orgasmo sulla rivoluzione culturale dei saperi, o sulla esplorazione della conoscenza nelle forme di pensiero di ogni parte del mondo, o ancora sulla scuola inclusiva e plurale, tutti “titoli” tanto suggestivi quanto vuoti, che fanno sentire tanto nobili e intelligenti le élites culturali (i cui figli, guarda caso, non vanno certo in scuole dove i bambini immigrati sono la maggioranza). Insomma, si oscilla tra un arroccamento, spesso strumentale, che rimuove il tema, che invece esiste eccome, di fare i conti con la realtà della società multietnica e il velleitarismo da anime belle che immagina una società irrealizzabile.
Fuori di propaganda e retorica, la cruda realtà è che i poveri insegnanti, a tutti i gradi di insegnamento, sono sostanzialmente soli di fronte al dilemma tra integrazione attraverso condivisione e inclusione tramite rispetto delle differenze. Sta nelle loro mani la patata bollente di come gestire le diverse sensibilità della classe, come perseguire contemporaneamente i due obiettivi tendenzialmente contrapposti di cui sopra, fare una “regolazione fine” dei programmi e dell’esposizioni dei temi. E senza che esista una “ricetta” predefinita, se non altro perché le composizioni delle classi sono le più varie. Naturalmente non esiste alcuna garanzia che facciano sempre bene, anche perché non tutti gli insegnanti sono, né possiamo pretendere siano, dei campioni di psicologia, sensibilità, attenzione ecc. Sono donne e uomini fallibili e imperfetti (in alcuni casi peggio che imperfetti, diciamolo), come tutti noi. Sarebbe già molto che fosse loro riconosciuto che hanno di fronte un compito impervio, soprattutto in certe realtà.
Immagine di copertina © Integrazione scolastica