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Ci sono alcuni mestieri ai quali vengono richieste precise responsabilità linguistiche. Chiunque svolga, col proprio mestiere, un importante ruolo educativo o sociale, dovrebbe prestare molta attenzione alla correttezza del proprio linguaggio e, naturalmente, ai propri stili comunicativi. Mi riferisco in primo luogo agli insegnanti. Faccio parte di questa categoria e so bene che il mio lavoro m’impone, oltre alla competenza didattica e alla conoscenza scientifica delle materie che insegno, un uso sempre appropriato della lingua italiana. È scontato, mi si obietterà. È vero: è scontato. Ma è anche vero che talvolta la stanchezza, la fretta, la leggerezza in cui si vorrebbe scivolare, almeno per un momento, ci portano ad essere superficiali, generici, distratti. Succede, ma l’obbligo di chiamare le cose con i loro nomi e di articolare le frasi secondo regole precise è un importante imperativo categorico di chi svolge il mio lavoro. E non è solo affare dell’insegnante d’italiano, ma di tutti. Le ragioni di tanto rigore sono evidenti: l’insegnante costituisce un potente dispositivo di acquisizione della lingua parlata. Dopo i familiari, il più potente, forse. Se parla bene, trasmette buone abitudini. Se usa, invece, un linguaggio povero, incerto, claudicante, commette seri danni in chi lo ascolta e si fida di lui.
Ma non sono solo gli insegnanti ad avere quest’obbligo. Che invece si fa tanto più forte e urgente quanto più la funzione del mestiere si connota socialmente. I medici, per esempio, hanno l’obbligo di essere chiari e diretti, e non devono mai dimenticare, ovviamente, le buone regole della lingua. Analogamente gli artisti, la gente di spettacolo, i politici. Già, i politici. Lungi dal voler cascare nel solito qualunquismo, bisogna dire che sono davvero molti i politici che offrono discutibili prove delle loro competenze in campo linguistico. Turpiloquio, linguaggio ridondante, scarsa conoscenza delle strutture grammaticali. La lingua evolve e, con essa, le regole che ne governano i meccanismi. Lo dice anche Francesco Sabatini, linguista e filosofo, presidente onorario dell’Accademia della Crusca. In un suo recente intervento il professore ha sostenuto che occorre maggiore flessibilità nell’approccio col congiuntivo, almeno nel parlato. Ma c’è un limite a tutto. Quando ho letto, qualche giorno fa, sul profilo Twitter di un giovane politico di spicco, un indicativo che spodestava con inaccettabile protervia il congiuntivo, obbligatorio in quella frase, sono inorridita. Non stupita, purtroppo, perché questi errori sono sempre più ricorrenti anche in chi, con le proprie analisi, le proprie scelte e il proprio agire politico, dovrebbe darci degli esempi di stimolo e di crescita.
Se questi alfieri della lingua italiana ci hanno abituato ad orrori e cacofonie che, a denti stretti, abbiamo dovuto mandare giù, ci sono alcuni delitti davvero imperdonabili. Il “piuttosto che” disgiuntivo (invece di oppure) ormai abusato, la formula transitiva “lo telefono” (invece che gli telefono), l’orrenda costruzione “ho bisogno qualcosa” (al posto di ho bisogno di qualcosa). E ancora: gli anglicismi esasperati come “endorsement” e “endorsare” invece che “appoggio” e “appoggiare”; l’impronunciabile “scannerizzo” al posto di scansiono; gli inqualificabili “location”, “target”, “mission”, “briefing”; gli inammissibili “downloadare” in luogo di scaricare o il surreale “ti lovvo” in luogo di ti amo, e tanti altri inutili prestiti linguistici. Questi no. Non si possono proprio sopportare. Così come inaccettabili sono le parolacce e le offese pesanti. Se i neologismi sono segno dei tempi, la volgarità, il populismo e la leggerezza nella scelta delle parole non sono storicamente giustificabili e non possono quindi essere sdoganati. Le parole sono importanti. E le frasi nelle quali prendono significato ancora di più. Ė una questione morale, oltre che di correttezza linguistica.