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Vetrina Terra
10 Luglio 2023Rubo questo spazio solo per questa volta, lo prometto, a Ivo Zunica, per avviare una riflessione su un certo costume, che facilmente spesso scivola nel malcostume. Intendo riferirmi alle cosiddette narrazioni. Cioè come ogni individuo, probabilmente me compreso, ti racconta la sua storia. Sua, nel senso non “di sé”, ma nel senso della storia “di parte” che racconta. E non si vuole parlare di quelle storie dichiaratamente inventate come la trama di un libro o di un film. Parlo del racconto che ognuno di noi fa di cose reali e per le più disparate motivazioni.
Non c’è gamma dello scibile e delle cose esistenti che sfugga alla deformazione di un racconto, cioè di come uno te la racconta. Forse solo la scienza vorrebbe essere immune e raccontarti l’oggettività, ma, come si è visto con il Covid, c’è chi ritiene che anche la scienza te la racconti a modo suo (vaccini docunt). E tanto più un oggetto è celebre e con i fari puntati e tanto più c’è una coralità di racconti, che fissano quell’oggetto con un racconto stereotipato di cui non si libera più.
Qui a Venezia è sin troppo facile capire che cosa vuol dire la deformazione della narrazione, e la tiro in ballo solo come esempio emblematico e non per altro. Perché più un oggetto è sulla bocca di tutti e più le narrazioni si moltiplicano, con l’effetto deformante assicurato. Ogni racconto su questo strano animale che è Venezia ( ma anche la stranezza è frutto di racconti deformati) infatti ottiene l’effetto che nella grafica ha la caricatura, e lo si potrebbe applicare ad ogni racconto su qualsiasi cosa. E il riferimento alla caricatura non è per l’effetto umoristico che ottiene, ma per il suo carattere deformante. Nella caricatura riconosci perfettamente la persona e anzi chi insegna a far le caricature sottolinea che la persona deve assolutamente essere riconoscibile. La riconosci, ma nello stesso tempo il racconto grafico della caricatura deforma enormemente i tratti, fino al grottesco a volte. Solo che nella caricatura l’effetto è voluto, mentre nelle narrazioni l’effetto della deformazione non solo non è quasi mai voluto, ma chi racconta pensa di raccontarti il vero, perché il fazioso che è in noi umani raramente si accorge della sua faziosità. Ovvio quindi che la caricatura di ogni narrazione qualcosa di vero contenga, ma il vero è affogato in un mare di omissioni, sviste, semplificazioni, letture e interpretazioni o sbagliate o soggettive, stereotipate, quasi sempre di seconda e terza mano. E’ il cosiddetto verosimile che diventa vero, mentre è sempre e solo simile, tanto simile, raramente, poco simile, frequentemente.
Venezia, dicevo e non scendo nei particolari, perché non è di ciò che vorrei parlare. Ma va detto che non c’è aspetto di questo oggetto urbano/territoriale, con un nome sulla bocca di tutti, che,
nel racconto, o complessivo, o dei singoli temi e non parliamo dei presunti o reali problemi, venga riportato in modo reale, oggettivo, con tutti i riscontri della complessità di cui fa parte. Per Venezia La caricatura si ottiene sempre, senza eccezioni. I portatori sani, cioè in buona fede, senza dolo ma ugualmente con colpa, vanno dal gondoliere che dà notizie ai turisti fino alla guida turistica, molto sono gli stessi veneziani e non parliamo dell’esercito di foresti/intellettuali/giornalisti/editorialisti, che intervengono credendo di raccontare chissà quali verità, sfornando invece banalità e osservazioni di sola superfice. Ed è persino assolvibile. I racconti deformati della realtà dell’oggetto in questione hanno avuto da due secoli in qua maestri d’eccezione ( da Mann a Brodskij, una lunga catena……), tutti contagiati dal mito da cui erano catturati e che loro stessi hanno alimentato alla grande.
Anzi questa del mito è una considerazione generale, e smetto il riferimento a Venezia, perché i miti giocano un ruolo non da poco nelle deformazioni delle narrazioni. Avete presente come te la raccontano la vita e la morte le religioni? Ecco. Si capisce di quanto e di come il mito, su cui ogni religione è fondata, contribuisca alla creazione di un racconto fantasioso.
Fatti questi esempi e queste premesse tutto risulta più facile da capire.
Non c’è oggetto narrato che non subisca questa sorte. Una infinita catena di sant’Antonio, fatta di telefonate, messaggi via social e via smartphone, ma moltissimo anche ad personam, bocca orecchio, esporta narrazioni sempre più caricaturate, anche senza umorismo, rispetto alla realtà narrata. Eppure, nessuno è sfiorato dal dubbio di quei racconti, né chi li fa né, ed è peggio, chi li ascolta.
Per i racconti che hanno come oggetto le persone è la stessa cosa, anche se sulle persone le caricature possono prendere direzioni diverse che possono finire per diventare opposte. Avete presente quando con un vicino di tavolo di una sera a cena da amici, magari appena conosciuto, parlando di una terza persona vi rendete conto all’unisono che per lui quel tale è uno stronzo e per voi è una persona eccezionale? A quel punto lo scandalo reciproco vi porta a confrontare le narrazioni sulla terza persona. A volte divergono e a volte no, ma se non divergono siete voi due che date valutazioni opposte e che avete calcato la mano sulla caricatura, tirandola dalla vostra.
Il fatto è che siamo in un mondo di parole, parole, parole, come diceva la cantante cremonese Mina all’orecchio dell’attore Alberto Lupo, che le parlava di rose e violini.
Ognuno vuol dire la sua un po’ su tutto, ma il terreno privilegiato è naturalmente la politica. In questo caso però, a differenza di tutto il resto, disegnare caricature dell’avversario è un atto voluto. Perché ciò che conta è il discredito che ogni narrazione vuole raggiungere in politica. Non vado oltre su questo tema e se si vuol approfondire qualcosa, rimando all’editoriale che ho scritto in questo numero.
I campi d’azione sono però molteplici. L’altro giorno in autobus avevo davanti una tale che al telefono, facendosi inevitabilmente sentire, raccontava indignata di una storia del suo lavoro, di capoufficio, di beghe interne. Era accorata e il racconto sembrava credibile, anche per i particolari che sciorinava. Ma quanti particolari ometteva a suo favore? Il capo ufficio l’avrebbe raccontata così?
A proposito di indignazione, è quel sentimento che non pochi rivendicano e che induce a denunce e ad appelli. L’indignato si sente figlio di un Dio maggiore e quando si vuole opporre a qualcosa si indigna. Lui non ti racconta una storia, ma legge le storie altrui e su quelle narrazioni si indigna, non sfiorato dal dubbio della verità o meno del racconto. Se il soggetto che racconta lui lo considera dalla sua parte, in politica, in un gruppo di amici, in un’associazione, al bar sport, state sicuri che la narrazione è Vangelo. E si indigna di conseguenza, aizzato dal narratore.
Nelle narrazioni deformate e rese caricature il mondo dei social è una vera e propria fiera permanente, ma paradossalmente è un campo in cui chi legge i racconti sa fare la tara, perché ormai i social sono bollati come palestra della faziosità. Ed è sorprendente che il campo privilegiato delle fake e dei racconti faziosi sia quello ormai più immunizzato dal momento che è ormai noto come luogo di falsità. Tutti gli altri contesti, proprio per contrasto con il regno della faziosità (“non siamo mica sui social”), sono accettati come luoghi in cui la narrazione può corrispondere alla realtà, e sono i più pericolosi perché è in questi luoghi considerati sterili che si veicolano descrizioni deformate
Il monumento della narrazione caricaturale è infatti la carta stampata e la sua veste televisiva e telematica.
Il cronista e chi fa i titoli della cronaca ci mettono un attimo a raccontarla a modo loro, con il condimento di refusi mai corretti, di luoghi sbagliati e foto di altri, e qui i racconti sono tanto più deformati tanto più resta ancora attuale l’ingenuità del lettore, che esprime la famosa frase: “ma c’è scritto sul giornale…”, traduzione nella carta stampata della più popolare “l’ha detto la televisione…”. Quanto alla televisione, appunto, quella contemporanea è la palestra di racconti/caricature. Perché è in mano a paludati e seriosi giornalisti nelle tre principali fasce d’ascolto, in cui ormai non si contano le trasmissioni d’intrattenimento su politica e cronaca. In quei luoghi il virus della narrazione deformata si propaga velocemente senza quegli anticorpi che in altre sedi, appunto i social ma non solo, si mettono in atto.
Che fare? Non raccontare più niente?
Non c’è che essere intanto consapevoli che ogni racconto sconta la deformazione dell’io narrante, anche la mia, sia ben chiaro. Ma saperlo aiuta ad approssimare un bozzetto un po’ più vicino al ritratto che alla caricatura.
E’ un po’ quello che tenta di fare la scienza, la quale disturba molta gente perché molta gente si rende conto che la scienza mette in atto delle contromisure (verifica, provvisorietà, binomio certezza incertezza), che molti nostri simili non vogliono adottare. Per pigrizia, per fretta, per ignavia e soprattutto per timore che i propri argomenti vengano smontati.
Ma la strada è quella e solo quella. Più vicina al racconto di Galileo che a quello del Cardinal Bellarmino.



