
Non luogo: questo sconosciuto
26 Dicembre 2023
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30 Dicembre 2023Correva l’anno 1969, quello successivo al famoso Sessantotto, e Giorgio Gaber componeva e
intonava la canzone “Com’è bella la città”, che poi finirà nel suo primo disco-spettacolo, “Il
signor G”. Il personaggio che esordisce nel testo della canzone è un tale che dice ad un altro, ad un
amico, gli dice: ma che ci stai a fare in campagna? Vieni a vivere in città, che qui si sta meglio! E
poi attacca il ritornello, che si ripete immutato sino alla fine dalla canzone, e recita così.
“Com’è bella la città, / com’è grande la città, / com’è viva la città, / com’è allegra la città; /
piena di strade e di negozi, / e di vetrine piene di luce, / con tanta gente che lavora, / con tanta gente
che produce; / con le réclame sempre più grandi, / coi magazzini, le scale mobili; / coi grattacieli,
sempre più alti; /e tante macchine, sempre di più”…
Ecco, detto e letto così, il testo della canzone non dice granché. Perché il significato
sarcastico, in realtà, era tutto affidato all’interpretazione canora di Gaber, cioè scaturiva dal modo in
cui il testo veniva cantato: un crescendo progressivamente travolgente in cui si passava dal tono
iniziale, melodico e incantato, a quello finale, parossistico e grottesco. Come se il cantautore
dicesse, in definitiva: “Bella, la città? Bella un corno!” E a noi verrebbe ancor oggi voglia di
ribaltare l’invito del personaggio che parla nella canzone e di domandare, piuttosto: ma che ci stai a
fare in città? È passato infatti da allora più di mezzo secolo, eppure il senso della canzone è ancora
attualissimo. Anzi, è più attuale che mai.
Personalmente sono nato, cresciuto e ho vissuto per gran parte della mia vita in grandi città e
in metropoli. Prima a Napoli, poi a Bologna, poi di nuovo a Napoli e infine a Milano (qui per quasi
trent’anni). No, non ero un emigrante. È che mio padre faceva carriera nell’azienda in cui lavorava
e ogni pochi anni veniva trasferito a dirigere una filiale più importante in un’alta città. Ma alla fine,
invece, nell’ultimo quarto di secolo ho preso dimora “in campagna”, cioè sono andato ad abitare in
un piccolo borgo lombardo di pianura, a sud-ovest di Milano. Dunque, di città e di campagna parlo
con una certa cognizione di causa: le ho ben sperimentate entrambe.
Oggi, quando mi capita di recarmi a Milano (che dista solo una ventina di chilometri da
dove vivo) vengo assalito, dopo poche ore di permanenza nella megalopoli, da una sorta di orticaria
spirituale, e mi vien fatto sempre di pormi una domanda stupidissima. O almeno, apparentemente
stupida: ma perché diavolo la gente vive in città? Chi glielo fa fare?
Naturalmente ci sono tante sacrosante ragioni per cui questo avviene: capita che in città ci si
nasca, si cresca, si vada a scuola, si trovi lavoro, casa, amici, si faccia famiglia ecc. Forse la
domanda giusta sarebbe: ma perché diavolo esistono le città? In una metropoli come Milano, tolto il
bel centro storico e alcuni angoli caratteristici sparsi qua e là, è tutto un oceano di palazzoni a
parallelepipedo, di quella deprimente architettura pseudo-razionalista degli anni Sessanta, Settanta,
Ottanta; di un’edilizia tutta ortogonale, tutta scatoloni-alveari, tutta falansteri disumani ed orrendi,
che deprimono lo spirito e nulla più.
E questo il lettore lo sa bene, d’accordo. Come sa che vivere in città presenta i suoi vantaggi.
In una grande città c’è di tutto, tutto quello che ti può servire… E anche quello che non ti serve
affatto. Ed è tutto alla portata di mano… Oddio, si fa per dire “a portata di mano”. In realtà può
essere tutto anche lontanissimo da te. Quando lavoravo a Milano, attraversavo la città da un capo
all’altro, da sud-ovest a nord-est, dove si trovava il mio luogo di lavoro: agli antipodi, rispetto a
casa mia. E impiegavo più tempo in questo trasferimento di quanto non ne impieghi ora, per
raggiungere Milano dalla campagna.
Ora volete forse che io vi annoi con l’enumerazione di tutti i vantaggi materiali e morali che
ci sono nel vivere in campagna o di tutti gli svantaggi che presenta il vivere in città? Li conoscete e
se non li conoscete entrambi, l’intuite. Eppure, per quanto una gran parte della popolazione italiana
viva in provincia, in cittadine di dimensioni umane, come si suole dire, oppure in una miriade di
piccoli borghi, nondimeno sono tantissimi coloro che conoscono invece solo la dimensione della
vita urbana, che anzi la amano, che si sono assuefatti al veleno mitridatico della vita urbana, il quale
veleno, assunto un po’ alla volta, a piccole dosi, manco ti accorgi più di prenderlo e ti ci assuefai,
non ti fa più male. Anzi, non ti accorgi di quanto male ti faccia.
Ci sono nel mondo – i geografi ce lo insegnano – anche città affatto diverse da quelle in cui
viviamo. Città che hanno uno sviluppo orizzontale, non verticale, città che si estendono tra villette,
case basse e tanto verde, con una gigantesca dimensione territoriale. Meno alienanti, forse, delle
nostre città, ma non so quanto, anch’esse, a “dimensione umana”. La verità è che troppo spesso noi
diamo per scontato che sia normale ciò che ci capita sempre e che normale non è.
Nelle nostre metropoli, intere popolazioni insistono su superfici ristrette, tra vie
superaffollate di umani, di macchine che trascorrono incessanti se non ti travolgono, di spazi
ovunque occupati da veicoli d’ogni ordine e grado, fermi o in movimento, tra suoni, rumori, clamori
acustici e luminosi, tra insegne piccole e gigantesche che incessantemente pulsano e lampeggiano,
tra scarichi maleodoranti e polveri di cemento o chissacché, tra solitudini che si aggirano con cani al
guinzaglio, fra tristi e striminziti fazzoletti di verde, giardini che con la natura hanno solo una
remota somiglianza, tra persone che si sfiorano e si urtano e si evitano in una fretta di andare, di
spostarsi, di passare, in una ridda di sollecitazioni e stimoli olfattivi, acustici, visivi, cinetici che
poco hanno a che vedere con la natura sana dell’essere umano. E l’elenco del disagio urbano
potrebbe continuare ad essere declinato in tanti altri modi.
E va bene, dirà il lettore perplesso da questa requisitoria che sembra senza costrutto. Che
fare, dunque? Beh, delle due l’una. Quella assai poco plausibile sarebbe di radere al suolo gran
parte delle città e dell’urbanistico ed edilizio inferno cittadino. Ricominciare da capo. Ma questo, si
sa, non si può fare, non si può proprio fare. L’altra sarebbe quella di fare l’incontrario di ciò che
ironicamente invita a fare la canzone di Gaber: scappare dalla città.
Scapparsene, chi può, dalle città, andarsene a vivere altrove, in piccoli centri abitati (e non
dirò nell’eremitaggio della campagna o della montagna). Andarsene a vivere dove la luce del giorno
si accende su un mondo normale, dove l’auto si parcheggia quasi ovunque, dove si va a piedi spesso
e volentieri, ma senza essere sottoposti alle tossiche esalazioni degli scarichi urbani e dei rapporti
umani malsani; dove la gente si conosce e per strada s’incontra e si saluta; dove oltre ai cani con
l’impermeabilino e il cappellino di lana, t’imbatti anche in animale veri e propri; dove al mattino lo
senti davvero il canto degli uccelli e li vedi volteggiare. Dove… dove ci va chi può permetterselo,
certo. E molti, negli ultimi decenni, l’hanno fatto: sono andati a vivere in provincia, in paese, in
campagna. Perché si sono accorti che le grandi città non sono affatto luoghi in cui è scontato vivere,
ma luoghi dove spesso piuttosto si sopravvive soltanto in una specie d’inferno in terra.



