Da via Piave a Cannaregio: l’espansione del disagio.
5 Settembre 2024Ogni governo vanta giustamente i suoi successi, veri o fatti passare per tali. Così Meloni da tempo si compiace di un andamento dell’economia dello zero virgola un po’ superiore ad altri paesi europei. Nulla di male, lo farebbero tutti. Il problema è che i governi, non solo quest’ultimo, hanno assistito inermi ad una divaricazione delle tendenze dell’economia, che in tutti i paesi OCSE è progredita nei 20 anni anteriori al Covid, mentre in Italia ha perso qualche punto di PIL pro-capite.
Il ventennio successivo alla 2a guerra mondiale
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la ripresa dell’economia fu caratterizzata da un forte sviluppo industriale accompagnato da un basso costo della manodopera e dei livelli del welfare, il tutto in una cornice di elevato protezionismo commerciale, barriere all’ingresso nei singoli mercati, prevalenza di posizioni dominanti in molti settori[1]. Durante gli anni ’50 venne gradualmente smantellato solo il primo, ma la gran parte del terziario – le libere professioni, il commercio, il settore alberghiero, i trasporti, il credito – sfuggì completamente al meccanismo concorrenziale. E protette furono anche molte aziende industriali, grazie agli elevati investimenti in reti di distribuzione e impianti di produzione realizzati nel periodo prebellico[2], come per elettricità e cemento, mentre la concorrenza caratterizzò di più la chimica.
La struttura proprietaria delle aziende più grandi non si emancipò dal modello familistico[3]. L’economia fu caratterizzata da molto Stato, anche grazie alle industrie di base ereditate dal fascismo con l’IRI[4], poi la Cassa del Mezzogiorno, ma anche con l’apporto del privato. Ne è stato un esempio lo stabilimento Olivetti a Marcianise. Vi sono state grandi trasformazioni sociali col passaggio di moltissimi lavoratori dal settore agricolo a quello industriale, con la presenza di imprenditori sia pubblici che privati, oltre al citato Olivetti, Sinigaglia, Mattei, Valletta.
E se anche nel dopoguerra emersero nuovi imprenditori, la categoria continuava ad esprimere posizioni sostanzialmente conservatrici e rimaneva ferma nella richiesta di bassi salari e di protezione dalla concorrenza internazionale, tanto da indurre studiosi a definire l’Italia come un paese latecomer[5].
Fattori di crisi degli anni ‘70
La Lira vinse l’Oscar delle monete per la stabilità nel 1959, il 1962 segnò il tasso della crescita del PIL italiano più alto del dopoguerra. Eppure nel 1963-64 il rallentamento della crescita fu prolungato e in controtendenza rispetto ad altri paesi, le pressioni sul cambio fortissime, fino a far temere una crisi valutaria[6]. A livello economico seguì un aumento dei salari che fece risvegliare l’inflazione e ridusse i margini di profitto cui gli industriali cercarono di rispondere con l’aumento della produttività ma creando conflittualità con lavoratori e sindacati, che ottennero lo Statuto dei Lavoratori. Nel frattempo la bilancia dei pagamenti si deteriorava, anche per effetto degli shock petroliferi del 1973 e 1979, e si assisteva alla fuga di capitali all’estero.
Sul terreno politico, il combinato di una politica DC di tutela dei privilegi dei ceti medi e la presenza del partito comunista più forte d’Europa politiche portò a politiche di aumento della spesa pubblica.
Politiche industriali “verticali”, ossia a supporto di aziende o settori specifici, non “orizzontali”, con con erogazioni discrezionali a un settore piuttosto che a un altro. Citando Salvatore Rossi: in 10 anni si è assistito a una scoordinata moltiplicazione di interventi che si sono andati sedimentando uno sull’altro, la cui razionalità economica a volte, a stento si è intravista dietro la coltre degli interessi clientelari. Alla fine degli anni ’70 i sussidi pubblici alle imprese ammontano in Italia al 3,4% del PIL. Il rapporto Debito/PIL passò dal 42% del 1971 al 56% del 1980.
La mancanza di riforme indusse a una politica polarizzata sulla manovra monetaria, con una miscela di inflazione e svalutazione. Così in termini di PIL, salvo la caduta del 1975 superiore al 2%, nell’arco dell’intero decennio degli anni ’70 il PIL crebbe mediamente del 3.4% l’anno. Il tutto ebbe conseguenze pesanti in termini d’inflazione, perché oltre alle conseguenze della svalutazione della Lira la credibilità italiana era caduta da parte dei sottoscrittori dei titoli del debito pubblico. La Banca d’Italia allora era soggetta alle decisioni dei governi, così i titoli invenduto erano acquistati dalla stessa, che stampava moneta! Ovviamente con impatto diverso da una parte sul ceto imprenditoriale e comunque degli autonomi che si adeguavano all’inflazione, dall’altro sui percettori di reddito fisso pur in parte tutelati dalla scala mobile. Fino al 1979 non muta l’inclinazione dirigista e la refrattarietà ai vincoli di bilancio. Così la scelta per lo sviluppo economico si basò sul binomio indebitamento e svalutazione. Il tutto in un contesto di un opaco (a dir poco) intreccio di rapporti tra finanza, politica e banche (ad esempio crediti concessi agli amici degli amici a condizioni di estremo favore) su cui sorvolo per brevità Non va dimenticato quanto avveniva nel sistema bancario.
Un cambio di rotta: illusioni e fallimenti
La finanza allegra basata sul binomio indebitamento/svalutazione alla base delle politiche degli ammi ’70 non poteva continuare. Le implicazioni negative erano molte, fuga di capitali all’estero, perdita di capacità d’acquisto per i dipendenti salariati e soprattutto per i pensionati. Aumentavano le pressioni della comunità europea. Gli USA avevano bloccato la loro inflazione. Il rapporto debito/PIL era passato dal 42% del 1971 al 56% del 1980. Nel 1979 vi fu l’adesione italiana allo SME, a seguito di un progetto d’integrazione monetaria europea avente lo scopo di creare non solo uno spazio europeo integrato sul piano commerciale ma soprattutto finanziario.
Nel 1981 vi fu il c.d. divorzio tra governo e Bankitalia con la cessazione dell’obbligo di quest’ultima di acquistare i titoli del debito pubblico invenduti. Le intenzioni erano buone, si trattava di stabilizzare la situazione finanziaria, fermare l’inflazione. Il che avrebbe dovuto introdurre rigore nella gestione della spesa pubblica. Invece il rapporto debito pubblico/PIL nel 1992 salì al 120%. Occorreva inoltre allargare le vie del finanziamento delle imprese (generalmente sotto-capitalizzate), rimasto quasi esclusivamente bancario, gestire una transizione da un’economia caratterizzata da molta presenza dello Stato ad una più concorrenziale e di mercato. Soffiava un vento liberista, eco delle politiche di Margareth Thatcher e Donald Reagan. Di fatto la spesa corrente continuò a crescere, riforme se ne fecero poche, crebbe invece in modo macroscopico la corruzione.
La prima vittima del nuovo regime monetario fu il brusco rallentamento della dinamica salariale [7] e l’aumento della disoccupazione. Un milione di lavoratori verrà espulso dal settore manufatturiero tra il 1980 e il 1985. La necessità di un forte guadagno di produttività da parte dell’impresa si realizzò con l’espulsione massiccia di manodopera e l’ammodernamento delle linee di produzione esistenti anziché attraverso l’innovazione tecnologica[8].
L’impresa pubblica, molto presente allora, più che avviarsi verso una transizione in direzione di un’economia di mercato, fu sempre più motivo di scontro a fini di dominio dei partiti, quello socialista in primis. Quella privata era relativamente debole di fronte ai mercati più importanti, USA in primis, con fragilità soprattutto in tre comparti cruciali: chimica, auto ed elettronica[9]. Brillò per miopia e assenza di strategie FIAT, diventata nota per la bassa qualità dei prodotti (Fix it again, Tony: portala ancora dal meccanico!), malgrado la reazione di quadri e dirigenti con la Marcia dei 40.000 dell’ottobre 1980. Lodevoli tentativi di joint venture e/o comunque di ingrandirsi e di aggredire con più forza soprattutto il mercato USA fallirono (Olivetti con De Benedetti per acquisire Apple; Montedison con Schimberni, Pirelli vs. Firestone prima e Continental poi, Comit con Irving Bank) e il capitalismo italiano non reagì adeguatamente alle istanze di cambiamento. Le grandi aziende non acquisirono una struttura proprietaria tipica delle grandi corporations USA rimanendo di fatto in mano di pochi noti. Agnelli e Mediobanca[10] sono stati i padroni del mercato per 30/40 anni e hanno sempre comperato e venduto le aziende ai prezzi che volevano[11]. Le grandi aziende conservavano il carattere padronale e rimanevano sottocapitalizzate: nel 1990 debiti erano il triplo del capitale di rischio. Altra caratteristica del periodo è stata anche lo spostamento delle strategie verso impieghi diversi dagli investimenti tradizionali in capitale fisici e in particolare verso quelli finanziari[12].
Quanto all’impresa pubblica, a controllo sempre più lottizzato, si apriva una voragine profonda nei bilanci, a partire dagli anni ’70, pur ridotta ma non risolta nel decennio successivo. Ma per ritornare negativa nel 1992. Il divario Nord/Sud si è progressivamente allargato[13] e gli intrecci con le mafie crebbero.
Così si concluse un iter in cui si sono gettate le basi della crisi delle grandi imprese e dell’economia che scoppiò all’inizio degli anni ’90. Sommatoria di una crisi politica (caratterizzata da forte debolezza dei governi), finanziaria, economica, col debito pubblico alle stelle e una bilancia dei pagamenti assai critica.
Il nuovo astro nascente: Silvio Berlusconi
La c.d. Prima Repubblica cadde travolta dagli scandali[14]. L’Italia era un po’ un mondo a sé, poco attenta agli avvenimenti globali, in primo luogo la caduta del muro di Berlino che era foriera di cambiamenti colossali nelle logiche dell’economia mondiale. Passaggio dal capitalismo al turbo-capitalismo, cambio delle filosofie industriali e conseguenti delocalizzazioni, progressivo allargamento della forbice ricchi/poveri, tagli diffusi del welfare in tutto l’Occidente. Il conseguente disagio accentuò la voglia di cambiamento, in un primo tempo anche interpretato al Nord dalla Lega, specie rispondendo alle esigenze della PMI e soprattutto della microimpresa, poi dalla discesa in campo di Berlusconi nel gennaio 1994 con il lancio di Forza Italia.
Abilissimo imprenditore e sapiente tessitore di amicizie politiche, partito da zero, con capitali tutti a prestito, iniziò negli anni ‘60 costruendo un impero edilizio con capitali di opaca provenienza, per comprare poi Il Giornale e lanciarsi nel mondo televisivo, rompendo il monopolio RAI.
Di fatto Forza Italia conquistò il consenso del segmento moderato che votava DC e insieme seppe interpretare la voglia di nuovo, di cambiamento della maggioranza degli italiani, annunciando principi liberali con spunti sociali, tanto da attirare molti ex socialisti craxiani, e con forti accenti anticomunisti. E si accreditò come forte riformatore, in particolare nella semplificazione della over-regulation che invece è rimasta ed è una delle palle al piede dell’Italia[15].
Ma ogni afflato riformatore, sincero o meno che fosse, non diede alcun risultato. Berlusconi si rivelerà un eccellente collettore di consenso ma uno statista sostanzialmente inetto. Cambiamenti sostanziali non se ne videro e tutti i problemi che appesantivano la produttività, la competitività e quindi l’attrattività del sistema Italia rimasero in piedi.
E costituiscono ancora oggi un’eredità pesantissima del passato e non si intravede da parte della politica (quale che sia lo schieramento) non solo la volontà di superarla ma nemmeno di averne consapevolezza.
[1] Mario Perugini: Le riforme che non ci hanno salvato. Alle origini del declino italiano, In: l’Italia al bivio, Classi dirigenti alla prova del cambiamento, 1992-2022, a cura di Franco Amatori, Pietro Modiano, Edoardo Reviglio, Franco Angeli, 2024, pagg. 12 – 13.
[2] Idem
[3] Pietro Modiano e Marco Onado, Illusioni perdute, Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, Il Mulino, 2023, pag. 35.
[4] Modiano/Onado, pag. 17: La riforma Beneduce-Menichella, basata sulla costituzione dell’IRI e della legge bancaria del 1936, fu una risposta coraggiosa e razionale (alla crisi post 2029). Che stabilizzò rapidamente l’economia italiana…Opinione questa parzialmente non condivisa da Ernesto Rossi nei Padroni del Vapore, Laterza, 1957 che definiva la politica industriale del fascismo privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
[5] Ancora Modiano/Onado, pag. 17.
[6] Idem, Modiano/Onado, pag. 24.
[7] Mario Perugini, pag. 21
[8] M. Perugini, in L’Italia al bivio, pag. 23
[9] Modiano/Onado, pag. 81
[10] Mediobanca era il c.d. punto di riferimento della finanza laica, in realtà (scrivono Modiano/Onado, pag. 99) si assunse il compito e la responsabilità non di promuovere un moderno capitalismo, ma di difendere le famiglie proprietarie da un’apertura ai mercati.
[11] Modiano/Onado, pag. 102, e alla pag. 103 aggiungono: Il malgoverno finanziario in un clima di euforia e di autocompiacimento delle classi dirigenti dell’economia e della politica, era insomma diffuso. Protagonisti in negativo furono non solo le punte avanzate del capitalismo italiano, ma anche …. personaggi ambigui, emersi con dotazioni di liquidità cospicue dal mondo oscuro degli intrecci fra politica, servizi, finanza, attività immobiliari, che in parte si erano agglomerati attorno alla Loggia P2.
[12] Ancora, Modiano/Onado, pag. 105.
[13] Un saggio approfondito sul fallimento delle politiche medioraliste è stato prodotto dall’Istituto Bruno Leoni: V. Antonio Accetturo e Guido De Blasio, con prefazione di Nicola Rossi, MORIRE DI AIUTI, i fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli, IBL Libri, 2019.
[14] Dove Craxi divenne il capro espiatorio (e qui il discorso diverrebbe complicato causa il sospetto gioco della CIA e degli USA causa Sigonella e il non allineamento di Craxi (a pensar male si fa peccato…)
[15] Tema tabù, mai più ripreso dalla politica e dai media, nemmeno dal ministro Carlo Nordio che prima di entrare in politica scriveva su Il Messaggero e Il Gazzettino che l’Italia ha 10 volte le leggi della Germania.