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10 Settembre 2024Come di consueto proponiamo un’ampia panoramica dei film in Concorso (e non) alla Mostra del Cinema. Una Mostra, va detto, non esaltante, senza picchi particolari e con difetti comuni a molte opere. Un’eccessiva prolissità, (gli autori troppo spesso indugiano inutilmente nel tratteggiare situazioni e ambienti già perfettamente inquadrati), e una generale poca attenzione alla leggibilità e comprensione della vicenda, non si contano i film che lasciano il povero spettatore con domande irrisolte (alzi la mano, un esempio tra i tanti, chi ha capito chi e soprattutto perché ha ucciso il cavallo di Master Kent in Harvest). Ma la magia del cinema ci ha coinvolto un anno ancora, c’è stata una messe di star a scintillare sul red carpet e il botteghino ha dato ottimi riscontri. Ancora una volta, dunque, Viva la Mostra del Cinema!
Beetlejuice Beetlejuice di Tim Burton
Il genere proprio non fa per me (e non a caso non avevo visto il primo film di cui questo è il sequel) e il mio giudizio è dunque fortemente condizionato. Certamente è un film pieno di vitalità e di trovate, con un ritmo incalzante dall’inizio alla fine, con momenti di spettacolo musicali di grande impatto, con un cast stellare. Sicuramente una pellicola che sarà apprezzata dagli amanti di quel mix di horror, grottesco e commedia che è la cifra di Tim Burton (deve però piacere proprio il genere..).
Maria di Pablo Larrain
Ancora un film su una grande icona femminile (l’ennesimo per Larrain) che (così come in “Spencer”) si concentra su un breve periodo, nella fattispecie l’ultima settimana di vita di Maria Callas, ritiratasi a Parigi, a imbottirsi di pillole, a vessare i devoti domestici con capricci da Diva, a cercare di riconquistare la voce sublime che l’ha abbandonata e a ignorare gli accorati allarmi del medico sul suo stato di salute. Ricorda un po’ Gloria Swanson in Sunset Boulevard, con tanto di devoto maggiordomo (Savino). Naturalmente, anche tramite l’espediente di un film intervista cui si concede (trovata invero non originalissima), abbandonandosi ai ricordi, proposti in modo volutamente rapsodico. Brava la Jolie, soprattutto per le parti cantate in cui si è superata ma il film risulta lento e noioso. Soprattutto monocorde, imponendo la stessa maschera di tristezza, di aristocratico distacco, di orgoglio e apatia insieme – coerenti con la fase malinconica del tramonto – anche a tutti i flashback del passato. Al contrario, proprio nelle immagini di repertorio mostrate in coda, si vede una Callas completamente diversa, una donna capace di sorrisi solari la cui vita è stata evidentemente anche piena di luci. Un film riuscito a metà.
El Jocker di Louis Ortega
È quasi una regola fissa di ogni Festival: imbattersi in opere talmente scombiccherate e inconcludenti da risultare indisponenti per il palese disinteresse dell’autore a costruire una comunicazione con i poveri spettatori. Ma già, lui è l’Artista che vede il Capolavoro che non è dato di cogliere ai poveri mortali. Resta il mistero di come e perché un film di questo genere sia stato inserito in concorso, e pure in quello principale.
Trois amies di Emmanuel Mouret
Delicata commedia su amori che nascono e rinascono, ritratti di donne vitali e contraddittorie, uomini fragili e complicati, di bugie e slanci sinceri e amicizie forti nonostante tutto. Ma aveva ragione Jacques Prévert: è cet amour a essere così complicato, così tenero, fragile, disperato.. Siamo tra Lelouche e Rohmer, ma il comporsi e ricomporsi delle coppie ricorda perfino Feydeau. Insomma, un film francese che più francese non si può. E soprattutto un film sull’amore come solo i francesi sanno fare. Ed è rassicurante che lo facciano, con immutata finezza, dagli anni ‘60. Consiglio vivamente a coloro che amano l’amore.
Campo di battaglia di Gianni Amelio
La guerra (la Prima Guerra Mondiale) vista dal backstage dell’ospedale militare che accoglie i feriti, molti dei quali con lesioni autoinflitte per sfuggire all’inferno della trincea. Tre i protagonisti: una donna, con un passato di brillante studente in medicina (ma mai laureatasi perché il mondo dell’epoca mal digeriva una donna medico) e due dottori, amici dai tempi dell’università con una visione antitetica. L’uno, capitano, che detesta i furbi che si fingono malati e l’altro, tenente, che di nascosto peggiora apposta le loro condizioni perché siano esentati dal tornare al fronte. A complicare la situazione anche l’irrompere dell’epidemia di “spagnola” (che fece quasi tanti morti quanto i caduti al fronte). La vicenda è narrata volutamente in toni asettici, nessuna concessione all’empatia da parte di alcuno dei tre protagonisti, anche l’accennata rivalità amorosa tra i due, entrambi attratti dalla ragazza, resta sottotraccia, un’attenzione quasi documentaristica alle condizioni dell’ospedale, l’insistita enfasi sulla totale mancanza di coinvolgimento dei ricoverati nelle sorti della guerra, concentrati solo sul tornare a casa. Intrigante il dilemma che si pone tra il senso di giustizia del capitano, che trova insopportabile che vi siano soldati che fanno i furbi e lasciano i compagni a combattere in trincea, e la pietas del tenente che sente l’inutilità del sacrificio. Più che un film pacifista, è un’opera sulla incomprensibilità della guerra, il conflitto essendo visto appunto come una iattura alle cui sorti i soldati sono totalmente indifferenti. Un film sicuramente interessante ma la ricercata asetticità, se da un lato esalta il valore di documentazione, manca nel trasmettere il senso di tragedia collettiva che è la guerra, e lo spettatore non viene mai davvero coinvolto.
The order di Justin Kursel
Action movie solido e con un virile Jude Law protagonista, su una vicenda reale che negli anni ’80 vide l’FBI smantellare una rete organizzata di pazzi neonazisti e suprematisti, sparsi tra vari stati dell’ovest profondo che aspiravano a sovvertire il potere costituito a Washington procurandosi fondi a suon di rapine. Ben girato e scorrevole, piuttosto prevedibile, lascia lo spettatore con la sinistra sensazione che, negli Stati Uniti, di svalvolati con sentimenti antisemiti, razzisti, facilmente manovrabili, violenti, che maneggiano armi sin da bambini ce ne siano parecchi (e purtroppo pure votano..). Non sono “tecnicamente” sovversivi, non rapinano banche, sono magari tollerati dallo sceriffo locale che sorvola su qualche uscita dalle righe.. Ma si tratta di soggetti ontologicamente fascisti e pericolosi. Insomma, dopo aver visto questo film l’assalto a Capitol Hill, per noi europei un evento inimmaginabile, trova qualche spiegazione.
Ainda estou aquì di Walter Salles
Filmone potente e coinvolgente che racconta la vicenda reale di Rubens Pavia un ex deputato brasiliano accusato dal regime militare di non ben identificati reati di cospirazione e per questo desaparecido. Ha il merito di aprire una finestra sulle nequizie di un regime, quello brasiliano appunto, meno frequentato da cinema e letteratura di quelli cileno e argentino ma non meno infame. Una narrazione lineare, pulita, senza la ricerca di sensazionalismi, né di facili effetti drammatici, si concentra sul punto di vista dei familiari. Quella di Rubens Pavia è la famiglia perfetta, benestante, cinque figli, amici, lui padre adorato e marito ideale. In un attimo viene portato via e scompare letteralmente, lasciando la scena alla moglie che si trova a doversi reinventare la vita, a fare i conti con difficoltà economiche e a proteggere i figli mentre vive il devastante lutto per la perdita del compagno di vita amatissimo. Viviamo attraverso di lei l’incubo del ritrovarsi improvvisamente in una di quelle situazioni di cui non si sa e non si capisce la ragione.. situazioni che si ripetono identiche per tutti i regimi dittatoriali, fascisti, comunisti, teocratici che siano. L’impotenza, la vulnerabilità totale di fronte al Potere, lontano ma incombente, sinistramente minaccioso e onnipotente, la totale cancellazione del diritto individuale. Bravissimi tutti gli attori (peraltro una straordinaria somiglianza con i veri personaggi che vediamo in immagini di repertorio scorrere nei titoli di coda), anche i ragazzi. Da vedere.
Wolfs di Jon Watts
Action comedy la cui azione si svolge tutta in una notte, ha uno spunto originale che poteva essere sfruttato meglio ma la sceneggiatura evidentemente contava poco (il finale in particolare è troppo arzigogolato e inverosimile), l’importante era creare un veicolo per permettere alle due star di gigioneggiare come se non ci fosse un domani. Comunque un film godibile, col ritmo giusto, con una coppia che funziona, un po’ sullo stile, per capirsi, di “Attenti a quei due” degli indimenticati Toni Curtis e Roger Moore. Certo, se Clooney arricchisse la sua gamma di espressioni facciali con qualcosa di diverso dal broncio interdetto in modalità Nespresso What else? , anche solo una seconda espressione (solo una!..), sarebbe meglio. Ma ai fans evidentemente basta così.
The room next door di Pedro Almodòvar
Almodòvar, sulla scia dei recenti Julieta e Dolor y gloria propone un altro film elegiaco e intimistico, di una dolcezza crepuscolare. Tema la morte, il bilancio di rimpianti e raggiungimenti di una vita che l’avvicinarsi della dipartita obbliga a fare, e soprattutto l’eutanasia, segnatamente il diritto di ciascuno ad autodeterminare il momento in cui staccare la spina. Un film delicato e patinato, superbamente recitato dalle due protagoniste (Tilda Swinton e Julianne Moore), di forte impronta teatrale (e infatti soffre di una certa staticità). Colto e letterario (toccanti le ripetute citazioni da The dead di Joyce). Certo, fa specie pensare alle opere sgrammaticate e barocche, turgide di vitalità e roventi passioni, attraverso le quali abbiamo imparato ad amare Almodòvar. Da Pepy Lucy Bom y otras chicas del monton, o Matador a The Room next door è un bel salto. Una curiosità: credo sia il primo film in inglese che riesco a seguire praticamente senza mai leggere i sottotitoli e lo dice la stessa persona per cui (per esempio) The order avrebbe anche potuto essere in.. polacco per quanto riusciva a capire. Misteri della listening comprehension.
Vermiglio di Maura Delpero
Rappresentazione verista, quasi da antropologi, della vita in un paese della montagna trentina (in Val di Sole per la precisione) alla fine della Seconda guerra mondiale, attraverso le vicende della famiglia del maestro elementare e della sua nidiata di figli. Delicato e accurato, tratteggia un mondo che di lì a poco sarebbe sparito, pieno di dignità e insieme soffocante, con particolare attenzione ai personaggi femminili che, pur in una società ancora assolutamente patriarcale, manifestano una vitalità e uno spirito che lascia già intravedere il cambio di passo dei decenni successivi. Un’opera sincera e appassionata, piena di evidente partecipazione (la regista e autrice omaggia il padre originario proprio del paese di Vermiglio). Un ritmo narrativo adeguato alla lentezza dello scorrere del tempo in quel contesto, forse però sin troppo compiaciuto e enfatico nella rappresentazione di un mondo chiuso e rarefatto.
Queer di Luca Gavagnino
Città del Messico, primi anni ’50, William Lee, un americano di mezza età di cui si sa solo che è espatriato dagli USA per i suoi costumi sessuali (è una queer, una “checca”), ma si intuisce essere molto ricco e piuttosto colto (forse un giornalista?), spende la sua esistenza tra fumo, alcool, droga e una frenesia sessuale che, instancabile, lo porta a caccia di giovanotti da un locale gay all’altro. La vita dissoluta e sprecata di Lee è sottolineata con enfasi e insistenza (forse non necessaria) fino a che incontra Eugene, un giovane bello ed enigmatico, che ricambia le sue attenzioni ma sembra non concedersi mai fino in fondo, anzi si accompagna sovente a una misteriosa accompagnatrice tanto da fare dubitare della sua omosessualità. Il protagonista se ne invaghisce e Eugene diventa una vera ossessione (l’ennesima dipendenza) mentre l’efebo si concede e si nega con nonchalance. Sembra essere una specie di Lolita in chiave gay ma poi il racconto (in effetti il film stesso è dichiaratamente diviso in parti) cambia nettamente registro. I due intraprendono una vacanza in Sudamerica dove Lee va alla ricerca di una radice dai potere magico e pericoloso di sviluppare la telepatia e ci troviamo proiettati in ambienti urbani resi con effetti surrealistici (alcuni di grande suggestione), nella giungla amazzonica con passaggi quasi comici, in divagazioni tra l’onirico e il magico. Troppa carne al fuoco. Curiosamente la critica si è molto divisa, spaziando dal capolavoro alla boiata pazzesca. Personalmente inclino più per la seconda opzione.
Harvest di Athina Rachel Tsangari
In un villaggio isolato nell’Inghilterra del tardo ‘500 vive in armonia una comunità agreste sotto la più che benevola amministrazione del Master locale, vedovo senza figli della legittima titolare della proprietà del terreno. E poiché l’eredità si trasmette per sangue e non per matrimonio, un brutto giorno si scopre che il proprietario è un cugino (ovviamente uno stronzo sesquipedale) che vuole mettere a reddito l’appezzamento e ha in mento lo sfruttamento intensivo per la produzione di lana. L’attrito tra l’arcadia preesistente e la modernità sarà devastante, anche per una serie di misteriosi accadimenti (purtroppo male spiegati da una sceneggiatura un po’ carente). Ottima messa in scena dell’arroganza del potere, della chiusura, dell’ignoranza e della superstizione delle comunità isolate ma resta la sensazione che manchi qualcosa: la certamente voluta ricerca di verismo ovvero di dialoghi rarefatti (che certamente erano tali in una comunità isolata nel 16imo secolo..) da un lato dà autenticità ma dall’altra fatica a coinvolgere lo spettatore. Anche per un ritmo narrativo eccessivamente lento (che, sarà una coincidenza, pare essere la cifra stilistica comune di molti film di questa Mostra).
Jocker: Folie à deux di Todd Phillips
Il primo Jocker era un film in sé perfettamente concluso e dunque la scelta di pensarne un sequel era una scommessa azzardata. Si è scelto di rilanciare, con un pezzo da novanta, inserendo il personaggio femminile di Lady Gaga. Il cui personaggio è ottimamente funzionale alla componente musical del film (la più riuscita, pescando a pieni mani tra i classici di Frank Sinatra) ma resta un po’ posticcio, non facendo decollare il film che resta privo di un ubi consistam, sospeso tra il musical, appunto, il legal drama (il processo a Jocker) e il dramma personale del protagonista ovvero la dicotomia tra la sua tormentata personalità e l’identità dissacrante e rivoluzionaria di Jocker che è quella che il suo “pubblico” invoca. Sarà probabilmente un successo di cassetta ma si rimane lontanissimi dalla potenza espressiva, dall’afflato drammatico e da quell’empatia per i “dimenticati” della società che avevano fatto trionfare alla Mostra del 2019 il primo film.
Diva Futura di Giulia Louise Steigerwalt
Praticamente un biopic su Riccardo Schicchi, il visionario creatore dell’agenzia di pornostar che dà il titolo al film. Un’opera onesta, con tutti i protagonisti credibili, forse un po’ troppo sbilanciata su un ritratto “piacione” del protagonista, che non cade nella facile tentazione del voyerismo (tutte le numerose scene di nudo sono volutamente asettiche). Si è scelto di puntare sul melodramma approfondendo le drammatiche vicissitudini di Schicchi e delle sue pornostar, meno sull’ambigua ipocrisia dell’Italia dell’epoca che ha eretto a star Ilona Staller e Moana Pozzi ma che ha vessato Diva Futura dal punto di vista giudiziario. Fastidiosissimo e incomprensibile il continuo alternare i piani temporali che disorienta inutilmente lo spettatore. Resta la domanda di fondo: ma davvero era imperdibile un biopic su Riccardo Schicchi?
Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
Strano incrocio tra un film serio di mafia e una commedia nera, in una complicata vicenda (di fiction ma ispirata a fatti reali) caccia al latitante Matteo Messina Denaro (l’”iddu” del titolo) da parte dei Servizi Segreti ma con tutta una serie di ambiguità, per la verità confusamente raccontata (anche questo è un tratto comune a molte opere di questa Mostra). L’ibrido tra due generi così diversi è una scommessa impervia e non del tutto vinta. Tuttavia, nonostante tutto, il film funziona e scorre via catturando l’attenzione dello spettatore che volentieri perdona le incongruenze. L’intento di fare sorridere su un tema serissimo e tragico come la mafia, peraltro non nascondendone gli aspetti crudeli, forse apparirà irrispettoso. Resta il fatto che è un’opera originale e interessante.
Stranger eyes di Siew Hua Yeo
Ambientato a Singapore, ambiente chiuso e controllato da telecamere ovunque, prende spunto da un evento drammatico, il rapimento di una bambina e il successivo disperato sforzo di ritrovarla e la scoperta da parte della coppia di genitori di essere stati spiati e filmati da tempo da uno sconosciuto (che si scoprirà essere un dirimpettaio) che recapita egli stesso le registrazioni che effettua alle sue vittime. Al registro di thriller misterioso si sovrappongono allora, prevaricandolo, quelli del voyeurismo, della solitudine, del tradimento, con un dipanarsi invero non sempre leggibile (ma, come già detto, questa sembra una infelice costante in questa Mostra) fino a un finale inaspettato. Il film coinvolge, nonostante la lentezza, tutta orientale, e la stupefacente inespressività del protagonista principale (il padre della bambina rapita). Suggestivo e quasi inevitabile il richiamo/omaggio alla Finestra sul cortile di Hitchcock.
Kiærlighet di Dag Johan Haugenrud
Secondo atto di una trilogia “Sesso – Amore – Sogni”, questo essendo appunto il capitolo dedicato all’amore, mette in scena due colleghi, un medico donna etero e un infermiere del suo stesso reparto ospedaliero, felicemente omosessuale, entrambi singoli, sospesi tra il piacere del sesso occasionale, la tentazione e insieme paura di un rapporto sentimentale duraturo, il tutto in un contesto che esalta la caducità della vita (entrambi lavorano in Urologia e hanno interlocuzioni quotidiane con uomini affetti dal cancro alla prostata). In Norvegia non vi sono tabù sessuali, meno che meno riserve sull’omosessualità, capita che dopo aver passato la notte con un uomo la sua ex moglie che vive accanto ti offra il caffè.. eppure, anche nella disinibita Oslo, l’inquietudine e quella sensazione di insoddisfazione o incompiutezza sono sempre in agguato. Insomma, la vita è proprio complicata. Il film si fa vedere, ma resta un po’ inconsistente. Felice l’ambientazione, con la città e i suoi dintorni quasi protagonisti aggiunti, grazie all’originale e suggestiva scelta di posizionare molte scene nei battelli che fanno la spola attraverso il fiordo.
L’orto americano di Pupi Avati
Un vero e proprio mistery thriller, con venature gotiche e soprannaturali (è stato definito un horror ma con una buona dose di esagerazione). Palese omaggio alla Hollywood degli anni ’40, a partire dalla scelta del bianco e nero, riecheggia certi film di Siodmak o di Hitchcock cui il film appare un quasi tributo.. Coinvolge e inchioda lo spettatore, soprattutto nella prima parte, quella ad ambientazione americana. Un ritmo narrativo né frettoloso né prolisso, cosa particolarmente apprezzata in questa Mostra di film spesso inutilmente ripetitivi. Si fa così perdonare certe debolezze della sceneggiatura e qualche sospetto di incongruenza nella trama. Avati dimostra di trovarsi a suo agio con il genere horror (o vicino) peraltro più volte frequentato in passato.
Familiar touch di Sarah Friedland
Una donna anziana e relativamente ancora indipendente ma la cui testa comincia a perdere colpi (non si ricorda il nome del figlio) viene trasferita in una struttura per anziani, peraltro eccellente tanto che il film sembra quasi uno spot per la struttura dove viene accolta. La seguiamo nella sua quotidianità, tra momenti relativamente felici e altri di cupa rassegnazione. Tutto molto vero e delicato e sicuramente un vissuto di molti con i propri genitori. Ma prevale l’aspetto documentaristico e il film non decolla.