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8 Settembre 2024La triste parabola di Renzi
10 Settembre 2024Nel nostro Paese dal 1946 ad oggi si sono svolti 78 referendum, dei quali uno istituzionale nel 1946 (monarchia o repubblica), uno di indirizzo nel 1989 (mandato costituente al Parlamento europeo), 72 abrogativi e 4 costituzionali.
Prossimamente in programma, previo nulla osta della Corte costituzionale, sono quello sull’abolizione del Job-act, promosso dalla CGIL, e quello per l’abrogazione dell’autonomia differenziata, promosso dalla sinistra e da varie altre associazioni.
Il referendum per abrogare il Job-act fu presentato già nel 2016 dalla CGIL e da Matteo Salvini e fu dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale in quanto le richieste referendarie furono recepite attraverso provvedimenti legislativi. Non è chiaro in base a quali dati statistici venga riproposta l’abolizione del Job-act, dato che questa normativa raggiunse l’obiettivo di aumentare l’occupazione a tempo indeterminato (si rimanda all’intervista al professor Bruno Anastasia, su LuminosiGiorni del luglio 2024 Job-act e referendum. Alcune domande al professor Bruno Anastasia ).
Il referendum sull’autonomia differenziata per l’abrogazione della legge Calderoli, definita “legge spacca-Italia”, si riferisce ad una tematica di non immediata individuazione nelle sue articolazioni, al di là della superficialità degli slogan. In origine, le regioni promotrici dell’autonomia differenziata furono il Veneto e la Lombardia, cui si affiancò con diverse impostazioni l’Emilia Romagna, tanto che il governatore Bonaccini definì l’autonomia differenziata “opportunità da non perdere”. Senza entrare nel merito, per farsi una idea della complessità della tematica si rimanda ai numerosi articoli tecnici, di diverso orientamento, sul sito LaVoce ( tra cui il recente articolo “Autonomia differenziata: né sogno né incubo”, di P. Balduzzi e C. Mingolla del 20.6.24).
Non sempre un referendum raggiunge la sua finalità, cioè registrare la volontà dei cittadini sul tema in questione. Spesso il referendum si risolve in un plebiscito sul partito o sul leader proponente, che travalica la scelta di merito.
Il referendum sulla riforma costituzionale del dicembre 2016 si risolse in un referendum contro Matteo Renzi, favorito dall’errore madornale di Renzi di legarne l’esito alla sua permanenza al governo.
Il referendum costituzionale del settembre 2020 sulla riduzione dei parlamentari è riuscito, spinto dalla carica moralizzatrice, fondata o meno, riguardo ai costi della rappresentanza parlamentare, e per certi versi non esente da una impronta populista. Fu richiesto da varie forze politiche, con manifestazioni di incertezza al proprio interno.
Il referendum sul sistema idrico del 2011 fu fuorviante. Questo referendum abrogativo indetto per impedire il ricorso al capitale privato nella gestione degli acquedotti fu spacciato come referendum sulla privatizzazione del bene acqua, quando invece la proprietà delle reti idriche sarebbe rimasta pubblica (si veda la legge 133/2008, art.23-bis, comma 5). Si alimentò l’equivoco attraverso una propaganda martellante con richiami moralizzanti. (Rimando al mio articolo Chiare fresche e dolci acque. Referendum e investimenti ).
Altro esempio: la separazione delle carriere in magistratura, tra pubblici ministeri e giudici , tema attuale oggetto del disegno di legge costituzionale presentato il 13 giugno 2024: nel maggio 2000 fu oggetto di un referendum insieme ad altri sei quesiti (promosso da Radicali, SDI e PRI), che non raggiunse il quorum. Fu riproposto nel 2022 (da nove consigli regionali) con altri quattro quesiti, e non raggiunse il quorum: tra le ragioni di questo fallimento, presumibilmente la sua natura tecnica. (“Questo strumento di democrazia diretta [il referendum] funziona solo se il quesito cui gli elettori sono chiamati a rispondere è semplice e comprensibile da chiunque; ma i cinque quesiti cui dovremo rispondere i 12 giugno sono lontanissimi da questi requisiti”. Pietro Ichino, LibertàEguale, 1.6.2022)
Prendendo in esame il referendum abrogativo, come valutarlo? A prima vista è inquadrabile come un istituto integrativo delle procedure democratiche in quanto, nell’ambito della democrazia rappresentativa, consente ai cittadini di pronunciarsi sulle proposte di modifica delle deliberazioni parlamentari. E’ il suo uso e la sua frequenza che suscitano riserve. Dovrebbe essere usato con discernimento, anche se poi è difficile concordare sul criterio del discernimento. In quanto al suo uso, le leggi che si vogliono abrogare sono pur sempre il prodotto di una maggioranza parlamentare scaturita da procedure elettorali. Il referendum finisce per diventare una svalutazione dell’attività parlamentare, perno della democrazia rappresentativa. Inoltre, nel dibattito parlamentare, le diverse forze politiche prima dell’emanazione di una legge hanno la possibilità di confrontarsi. Il politologo Giovanni Sartori ha scritto pagine critiche nei confronti dei referendum. Contrapponendosi ai sostenitori della “democrazia referendaria”, scriveva che in occasione dei referendum non c’è confronto e dibattito tra i partecipanti alla decisione, e viene massimizzata la conflittualità. Chi perde nel referendum perde tutto.
Il referendum detiene una caratteristica fondamentale che lo differenzia dalle scelte elettorali: richiede che il cittadino abbia cognizione del problema oggetto del voto, e che sia in grado di valutare quanto più possibile il significato e le conseguenze della sua scelta. I referendum – soprattutto quelli con valenza tecnica – richiedono non la più semplice doxa, l’opinione, ma la conoscenza del tema che deriva dall’epistéme, dall’esperienza e dall’approfondimento.
Quanti cittadini posseggono una sufficiente cognizione della problematica su cui pronunciarsi? A formare la conoscenza dovrebbero operare i partiti e i media, anche se, a seconda del tema referendario, la tematica del referendum è talvolta svincolata dalla disciplina di partito . L’illustrazione delle finalità è demandata alla presentazione della forze politiche proponenti, una presentazione spesso semplicistica e riduttiva.
Ed esaminando alcuni referendum vien da pensare i promotori, più che acquisire la valutazione dei cittadini sul tema, sfruttino la contrapposizione politica, il richiamo ideologico e anche l’inevitabile carenza di cognizione; e confidino sulla semplicità e attrazione degli slogan, che in parte sono inevitabili dato il carattere categorico del voto, ma concorrono a offuscare la complessità della tematica.
Forse i referendum più comprensibili sono quelli che riguardano il divorzio, l’aborto, l’eutanasia, che sono le tematiche più vicine al sentire ed alle esperienze di vita del cittadino, i casi in cui la necessità della cognizione della tematica viene superata dall’esperienza diretta, sperimentata o possibile. Scelte che toccano la sfera più personale dell’individuo. Non che le scelte referendarie in questi casi diventino facili, in quanto la fede religiosa può provocare dubbi e lacerazioni ; e non solo la fede, anche i diversi intenti educativi che i cittadini ritengono debbano essere perseguiti, considerato che il cittadino sceglie non solo per sé, ma anche per gli altri, e la sua scelta condizionerà le esperienze altrui.
E riguardo all’esclusione dei perdenti, la vittoria sull’avversario non dovrebbe costituire l’obiettivo primario: si dovrebbe decidere sul tema, senza perseguire il solito deleterio scontro di civiltà.