Lavoro nero, caporalato e sfruttamento dei lavoratori
18 Luglio 2024Studiate la Storia!
20 Luglio 2024Il prossimo anno saremo chiamati a pronunciarci sul referendum abrogativo del Job Act. La CGIL ha raggiunto le firme necessarie per il suo svolgimento, previa dichiarazione di ammissibilità da parte della Corte Costituzionale.
Il quesito di maggiore richiamo del referendum consiste nella richiesta di ritorno alla disciplina dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori; in particolare, nella richiesta di abrogazione delle norme che impediscono il reintegro al lavoro in caso di licenziamenti illegittimi. Attualmente, nel caso in cui sia stato assunto dopo il 2015, il job act consente alle imprese di non reintegrare un dipendente licenziato in modo illegittimo.
Il Job act fu istituito con il d.legislativo 23/2015 con lo scopo principale di incrementare le assunzioni a tempo indeterminato.
La legge prevedeva al suo esordio il meccanismo delle “tutele crescenti” sulla base dell’anzianità di servizio. Lo scopo era di eliminare l’imprevedibilità del costo del licenziamento: quindi in caso di licenziamento illegittimo, l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore era commisurata automaticamente all’anzianità di servizio. Nel 2018 la Corte Costituzionale, eliminando l’automatismo, ha affidato al giudice il compito di calcolare l’ammontare dell’indennità.
Tuttavia “…nonostante l’opera demolitoria della Corte Costituzionale, non può negarsi che delle riforme del 2012 e del 2015 sopravviva il nocciolo duro e la principale novità rispetto al passato, costituita dal superamento del dogma della tutela reintegratoria. Questa riforma non è stata intaccata neanche dalla Corte costituzionale, e quindi può considerarsi acquisita e metabolizzata dall’ordinamento italiano: in ciò allineato – occorre dirlo – all’Europa”. (Si riprende dall’articolo di Francesco Rotondi, IPSOA 24/3/2024 “Tutele crescenti. Cosa resta dopo quasi un decennio?”)
Quindi la reintegra nel posto di lavoro non costituisce più una variabile indipendente. La tutela della reintegra rimane in ipotesi tassativamente previste dalla legge (licenziamento nullo perché discriminatorio, licenziamento orale, licenziamento ritorsivo, oppure per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, etc.)
Il contratto di lavoro è un compromesso tra le parti, sindacale e imprenditoriale. Il compito del legislatore è la tutela della libertà di impresa e delle condizioni di lavoro con il fine di creare un incentivo all’espansione dell’attività produttiva e dei livelli occupazionali. Il campo del lavoro è estremamente diversificato e più complesso rispetto agli anni ’70, per la varietà dei settori produttivi e dei contratti; per comprendere il suo procedere non si può fare a meno dell’esame di notevoli quantità di dati – non sempre disponibili – la cui interpretazione non è semplice e non è univoca.
In riferimento al Job act, quali valutazioni si possono dare basate sui fatti, lontano da visioni ideologiche e interessi di parte?
Rivolgiamo qualche domanda al professor Bruno Anastasia, esperto di economia del lavoro, segnalando altresì il suo intervento Jobs act: cancellarlo non risolve i problemi del lavoro in LaVoce.info dell’8.5.2024.
Professor Anastasia, a quasi dieci anni dal suo esordio, qual è il suo giudizio sul Jobs Act? In particolare, ritiene che abbia raggiunto o meno il suo obiettivo di aumentare la quota di lavoro a tempo indeterminato?
Il Jobs Act del 2015 è stato un ampio intervento in materia di regolazione dei rapporti di lavoro e di modifica delle politiche del lavoro attive e passive. Un giudizio analitico su di esso dovrebbe prendere in considerazione tutte le modifiche che ha introdotto, in alcuni casi con immediata operatività e risultati (es. in materia di ammortizzatori sociali, con l’istituzione della NaSPI), in altri attivando un percorso che successivamente è stato – più o meno bene – implementato (penso in particolare agli interventi per i disoccupati di lunga durata e al rafforzamento e ri-orientamento dei servizi per l’impiego). Purtroppo nel dibattito politico e per ragioni eminentemente politiche (di bandiera), il Jobs Act è stato ridotto, con una semplificazione insopportabile ma non nuova (la stessa cosa è accaduta per la riforma delle pensioni Monti-Fornero), alla questione dell’art. 18 e della tutela “reale” (reintegra) in caso di licenziamento illegittimo. Ora si dice che si vuol abolire il Jobs Act – mentre in realtà se ne modifica solo una piccola parte – per reintrodurre il dispositivo originario dell’art. 18.
Sulla bontà delle motivazioni pro e contro la tutela reale si è discusso e si può continuare a discutere a lungo. Sul piano dei principi: se la reintegra sia l’unica sanzione giusta nel caso di licenziamento economico immotivato; se sia corretto e credibile che un giudice possa valutare le ragioni economiche che possono indurre un’impresa a ridurre l’apporto di manodopera. Sul piano delle prassi: se siano sopportabili, per le parti, i tempi lunghi della giustizia per decidere se un licenziamento è motivato; se la reintegra venga effettivamente praticata oppure venga più spesso “convertita” in compensazioni monetarie (salvo casi emblematici per ragioni sindacali).
Se da questo piano di analisi generale scendiamo a quello sugli effetti sul mercato del lavoro le questioni diventano più semplici e meglio trattabili anche scientificamente. Innanzi tutto è evidente, per chi vuol utilizzare le statistiche disponibili, che non c’è nessuna relazione sostanziale tra la “precarizzazione” del lavoro (affermazione tra l’altro che necessita di numerose qualificazioni) e le modifiche all’art. 18. Anzi, contestualmente all’approvazione del Jobs Act c’è stata una grande crescita del lavoro a tempo indeterminato: certo essa è stata determinata principalmente dagli incentivi attivati dal governo Renzi con la finanziaria 2015 e non dall’attrazione esercitata dal contratto a tutele crescenti. D’altro canto, dopo la presunta “liberalizzazione” dei licenziamenti per ragioni economiche (intendendo per liberalizzazione il venir meno dell’alea della reintegra), non c’è stata alcuna crescita degli stessi i quali, anzi, hanno conosciuto un andamento tendenziale opposto.
Anche guardando ai dati più recenti, post pandemia, riscontriamo andamenti analoghi (crescita del tempo indeterminato e stabilità/diminuzione dei licenziamenti economici): evidentemente il mercato del lavoro è governato innanzitutto dai fattori strutturali, economici e demografici.
Quali possono essere a suo giudizio le conseguenze in caso di ripristino dell’art.18?
Le conseguenze politiche sarebbero importanti: ovviamente chi vince un referendum si rafforza e chi perde si indebolisce, tanto più se la materia diventa “di bandiera”.
Sul piano invece delle conseguenze sul mercato del lavoro e, nello specifico, sull’andamento della quota di rapporti di lavoro a termine sul totale – se è questo l’indicatore che si vuol condizionare – non cambierebbe nulla. Tale quota continuerebbe ad essere governata dal ciclo economico-demografico, dalle continue modificazioni della struttura produttiva (se aumenta il turismo aumenta il lavoro stagionale etc.) e dalle normative, sindacali e contrattuali, più o meno rilassate e controllate, in merito alle diverse tipologie di rapporti di lavoro a termine. Il ripristino dell’art. 18 vecchia maniera non avrebbe alcun effetto in termini di incremento della quota di dipendenti a tempo indeterminato, anzi, ritornerebbe a giustificare qualche effetto – che penso comunque modesto – di deterrente sulle assunzioni a tempo indeterminato, per evitare i rischi connessi all’incertezza sui contenziosi in materia.
Vede la necessità di apportare modifiche all’attuale disciplina contenuta nel Jobs Act?
L’attività di manutenzione delle riforme è sempre importante. Non esistono riforme “definitive”. E molte modifiche sono state apportate in questi anni. Sul punto specifico della precarietà il sogno di abolirla per legge è di fatto impraticabile: bisognerebbe abolire apprendistato, lavoro in somministrazione, lavoro intermittente, lavoro a tempo determinato, lavoro stagionale… E’ dunque necessario regolarla e controllarne le dimensioni, all’interno della singola impresa e del sistema economico-sociale nel suo complesso. Oggi esistono molti paletti numerici fissati dai contratti e dalle norme (rapporto tra posizioni a tempo determinato e organici; durata massima dei rapporti; numero massimo di proroghe; intervalli tra diversi contratti etc. etc.) che dovrebbero contenere entro limiti predeterminati l’espansione del lavoro a termine e impedire che un lavoratore venga “intrappolato” in tale condizione: occorrerebbe un monitoraggio continuo, stringente e preventivo di tali limiti, senza attendere che si verifichi il contenzioso per andare a indagarli. Le possibilità informative e tecnologiche per tale monitoraggio, a partire dalle comunicazioni obbligatorie che le imprese rilasciano continuamente a Inps e Ministero del lavoro, ci sono tutte. Per renderle del tutto operative servirebbe un chiaro commitment in questa direzione da parte del Governo e dell’Ispettorato Nazionale del lavoro e la rimozione senza tentennamenti degli ostacoli all’integrazione delle banche dati amministrative necessarie (gelosie istituzionali, privacy, difficoltà di dialogo tra i gestori dei sistemi informativi etc.).