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28 Luglio 2024Non conosco abbastanza i gatti, tanto da averne un’opinione qualificata; ma chi ne ha, perché vive con una gatta, e a cui ho chiesto un piccolo cappello introduttivo, mi scrive tra l’altro:
“ Tuttora mi sorprende dover ammettere che riesco a malapena a decodificare una decina di manifestazioni “miagolesche” della mia gatta, ma lei sicuramente capisce tutto quello che io le dico.”
Questa dichiarazione – che chiunque viva con un gatto credo potrebbe confermare – è in certo qualmodo ripresa da Montaigne quando afferma, “incastrandola” in un discorso più vasto:
Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa che essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?[1]
Michel Eyquem de Montaigne (Francia, 1533-1592) probabilmente sorriderebbe, a sentirsi dire “filosofo”. E’ pur vero che lo troviamo nei manuali di Filosofia del quarto anno di liceo, anche se relegato in una paginetta o due, e sotto l’etichetta di “scettico”. Lo scetticismo (gr. sképsis, it. ricerca, dubbio, …) – che si affermò in Grecia come corrente di pensiero a partire dal IV se. a.C., per poi puntualmente riemergere qua e là nei secoli successivi – indica la tipica attitudine a considerare la vita, il mondo e qualunque oggetto della conoscenza come irriducibili a qualsiasi proposizione che pretenda di irrigidirli in una de-finizione esaustiva, data l’inadeguatezza del nostro pensiero ad arrivare ad alcunché di certo.
Ora, che chi viene definito “scettico” – appunto perché dubita delle capacità della nostra ragione logica e argomentativa (e dunque filosofica) – sia poi inserito proprio in un storia della filosofia, è una delle cose belle in quanto contraddittorie della filosofia, che le contraddizioni non teme, anzi.
Ma tornando a Montaigne, il dubbio riguardante le capacità ludiche della sua gatta ci pone una domanda interessante: perché, nonostante tanti esperimenti condotti su tanti (poveri) animali, abbiano sentenziato che il barlume della coscienza rimane appannaggio nostro – di noi “animali umani”- in tutta coscienza non possiamo escludere che forme di consapevolezza diverse dalla nostra siano partecipate da tanti animali che spesso ci sorprendono con i loro comportamenti.
Inoltre, con la conclusione di dichiarare la coscienza caratteristica di noi esseri umani soltanto, ricadiamo facilmente nell’antico errore di prospettiva che ci contraddistingue; cioè, stabilito che il vertice della creazione o dell’evoluzione siamo noi, tutto viene sottoposto a valutazione a partire dal nostro punto di vista: modo di pensare, di ragionare, di creare diventano “i soli” modi possibili e, soprattutto, validi. Eppure, sostenere che un cavallo, poniamo, non sarà mai in grado di dipingere una “Gioconda”, non sminuisce affatto quel cavallo: bisognerebbe capire se a quel cavallo interessi, o gli dia piacere, dipingere una “Gioconda”! Se la risposta presumibilmente è “No”, la cosa già ci priva del sottile piacere di sentirci il vertice sommo di tutto.
Su questo Montaigne ha parole insolitamente aspre (la sua prosa si impronta piuttosto all’ironia che all’invettiva):
E’ possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura [l’essere umano], che non è neppure padrona di se stessa ed è esposta all’ingiuria di tutte le cose, si dica padrona e signora dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla? E quel privilegio che si attribuisce, di essere cioè il solo in questa gran fabbrica ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza delle parti, il solo a poter render grazie all’architetto e a tener conto del bilancio del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio?[2]
Questo privilegio, si è ritenuto per secoli che all’uomo fosse stato concesso da Dio. E la prova, si sosteneva, è che lo dice la Bibbia, libro ispirato da Dio stesso. Chi ha messo in luce questo corto circuito (“Sono io che affermo che Dio afferma che mi ha scelto”) non ha spesso goduto di buona reputazione. Anche se un po’ sbrigativamente, notiamo qui che se un altro popolo afferma – come è sempre successo – di essere il prescelto da Dio, modificando però il nome del “suo” Dio, siamo facilmente davanti a una guerra di religione. Poiché la verità per definizione è una e unica, e pertanto non ammette un’altra verità, questo assunto aiuta a capire le guerre di religione ma spiega anche perché si aneli così tanto alla ricerca spasmodica e alla rivendicazione affannosa di quale sia la verità: come se, una volta raggiuntala, potessimo acquietarci in un ‘esistenza tutta pace e tranquillità’, dato che di verità ce n’è una sola, l’abbiamo trovata, e allora perché dannarsi l’anima a cercare ancora?
Per parte mia, apprezzo la definizione La verità è sinfonica, titolo di un libro di Hans Urs von Balthasar.
Ma qual è il problema, allora? Che cosa conduce l’uomo, essere razionale, a considerarsi solo per questo fatto superiore a tutte le altre creature? Ancora Montaigne:
La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si vede e si sente collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, […] e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. [3]
Dalla presunzione non può che conseguire la vanità:
E’ per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto tra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa che essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? [4]
Eccoci al punto. Siamo noi a determinare la bestialità degli animali, in rapporto alla nostra (presunta) uscita dall’animalità. Ma qui, saremmo ancora su un piano comprensibile e, fino ad un certo punto, accettabile: non è comprensibile che chi giudica lo faccia dal suo punto di vista? Se sì, proviamo allora a rovesciare la prospettiva:
Di fatto, perché un papero non potrebbe dire così: ‘Tutte le parti dell’universo mi riguardano; la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a ispirarmi i loro influssi; ho tale il vantaggio dai venti, il tal altro dalle acque; non c’è cosa che questa volta celeste guardi con altrettanto favore quanto me; sono il beniamino della natura; non è forse l’uomo che mi nutre, mi alloggia, mi serve? E’ per me che egli fa seminare e macinare; se mi mangia, così fa l’uomo anche col suo compagno, e così faccio io con i vermi che uccidono e mangiano lui’[5].
Quindi tutto a posto, possiamo andarcene assolti perché giustificati dal comprensibile valutare e giudicare in base al nostro punto di vista? Non proprio: quello che nuoce a una pacifica e proficua convivenza tra diversi è proprio il senso di superiorità che una componente prova nei confronti dell’altra: senso di superiorità che fatalmente sfocerà nell’esercizio del potere e nella coercizione verso i propri fini a scapito di chi è considerato inferiore.
Detto questo, nel rapportarci agli (altri) animali bisognerebbe anche tener conto del criterio che guida chi li difende: anche ammesso che noi umani siamo “superiori”, c’è da considerare che, esattamente come noi, gli animali soffrono e provano piacere: se davvero siamo loro “superiori”, questa superiorità dovrebbe tradursi in “custodia” verso i più deboli, non in sfruttamento, crudeltà, uccisione indiscriminata.
Peter Singer, il filosofo australiano autore di Liberazione animale – uscito nel 1975 e saggio fondamentale dell’antispecismo (appunto, il movimento di opinione e di azione che si oppone all’idea che la specie umana sia superiore alle altre), e di cui è appena uscita la riedizione[6] – nel rispondere a Cristina Nadotti che lo intervista alla presentazione del libro all’Università statale di Milano, sostiene che:
“Quella nei confronti degli animali non è per me una questione di sentimenti ed emozioni. Si tratta di considerare con lucidità le torture che infliggiamo loro e di chiederci se dobbiamo prendere in considerazione la loro sofferenza.”[7]
Conclusione (un po’ amara): nei tanti episodi di sanguinaria crudeltà che la storia ci ha consegnato, e da cui non ci dispensa l’orrenda quotidianità di massacri che avvengono praticamente sotto i nostri occhi, l’epiteto che viene spesso in mente a proposito di chi li compie o non li impedisce, è: “Bestie!”. Ma non è stato mai documentato che, dal basso della loro inferiorità, ci siano state bestie che hanno pianificato e attuato stermini di masse indifese col gas, col napalm, coi missili, le bombe atomiche, i cacciabombardieri, i droni, ecc. ecc.
[1]Michel de Montaigne, Saggi, II volume, cap. XII, “Apologia di Raymond Sebond”, varie edizioni.
[2]Ibidem, passim
[3]Ibidem, passim
[4]Ibidem, passim
[5]Ibidem, passim
[6] Peter Singer, Nuova liberazione animale, prefazione di Yuval Noah Harari, pp. 440, Il Saggiatore
[7] Polli e mucche vanno difesi ma non perché li amiamo, il venerdì di Repubblica n. 1894, 5 luglio 2024.