
La gratuità del male, la banalità del bene
29 Ottobre 2024
CONO DI LUCE Paesaggi e personaggi si rincorrono nei romanzi di Elizabeth Strout.
29 Ottobre 2024È lì, in mezzo alla strada e non si muove, ma mi guarda. Pensavo fosse morto, ma tenta di muoversi senza riuscirci; e mi guarda.
Scendo dalla bici, sono vicino a casa e torno indietro, prendo una scatola e, mentre mi avvicino, qualcuno mi grida: “È lì da stamattina!”. Saranno le 11, e se nessuna macchina l’ha schiacciato sarà perché di macchine in questa via interna ne passano poche, i conducenti di quelle poche avranno fatto attenzione, o sarà stato un caso. Fatto sta che lo spingo piano dentro la scatola, mentre due ragazze, una con un passeggino, e a debita distanza mi gridano “Bravo, meno male…”. Le saluto e rientro. Dentro le scatola c’è un po’ di di sangue, ma non capisco dove è ferito. Gli porgo dell’acqua in un piattino, gli metto vicino un po’ di cereali della colazione e una nocciola. L’acqua nel piattino si tinge di rosso, sarà lì che ha male, ma perché non riesce a muoversi? Si aggira nella scatola tastandola col muso e con la coda, ma barcolla e ricade.
Mi sbrigo a cercare il numero verde del Servizio veterinario dell’Aulss. Mi risponde una ragazza che, quando capisce di che animale si tratta, mi dice che il loro compito è occuparsi di cani e gatti, insomma di “animali d’affezione”, non di altri. Replico: “E allora questo, solo perché non è un “animale d’affezione”, lo lasciamo soffrire e morire?”. Sento dei brusii all’altro capo del telefono, la ragazza mi chiede di attendere. Dopo un po’ mi passa un altro numero.
Al nuovo numero una signora mi ascolta e mi mette in attesa perché deve informarsi. Dopo un po’ mi spiega che vorrebbe poter fare di più, ma non ci sono servizi preposti al mio caso. Forse dovrei rivolgermi a un veterinario privato, ma non è detto che mi riceverebbe. Ma la signora ha in serbo un’informazione preziosa: contattare il numero del C.R.A.S.[1]: è lì che recuperano animali incidentati, anche se non sono cani o gatti: chissà?
Al C.R.A.S. la ragazza che mi risponde è giovane e spigliata. Si informa subito delle condizioni dell’animale ferito: la informo che ha perso sangue dalla bocca e non riesce a sostenersi sulla zampa anteriore destra. In più barcolla e a tratti dondola la testa di qua e di là. La ragazza sembra riflettere, poi mi chiede di inviarle delle foto o magari un video.
Eseguo, e dopo un po’ mi richiama. “Brutto segno – mi dice –: da come ondeggia con la testa potrebbe trattarsi di una commozione cerebrale”. La ragazza mi mette in attesa; mi attraversano la testa pensieri di ogni tipo. Quando si rifà viva mi chiede se me la sento di portarglielo al centro medico-veterinario che loro gestiscono. Rispondo che non c’è problema. Dove? A Polesella, provincia di Rovigo, un’ora di autostrada. Mi preparo per partire, quando mi richiama ancora: c’è una loro volontaria che sta facendo il giro per raccogliere gli animali segnalati tra le province di Padova e Venezia, e potrebbe passare per Mestre nel giro di un’ora. Perfetto. Mi dà indicazioni per come sistemare la scatola che affronterà il viaggio con un topo ferito dentro.
Nel luogo convenuto, la volontaria prende il pacco in consegna; le lascio un contributo per le spese, mi ringrazia, saluta, e io la guardo andare via. Che strano: mi separo da un animale di cui la maggior parte di noi avrebbe ribrezzo, e sento già la sensazione del distacco; forse perché mi sono preso cura di lui, e ora lo affido ad altri, che spero lo tratteranno bene – lo so che lo tratteranno bene – anche se non ci dovesse essere nulla da fare.
Torno a casa fra tristezza e sollievo, scrivo un messaggio alla volontaria del C.R.A.S. che mi ha risposto al telefono, chiedendo di tenermi informato, in ogni caso. Ma fino al giorno dopo non ricevo nulla. “È fatta, penso: il mio topo è morto e per loro la pratica è chiusa”. Prendo il telefono, mi potrebbero almeno avvisare, no? Quando mi rispondono, è la stessa ragazza del giorno prima: si scusa, ma sono tutti volontari, fanno del loro meglio. Mi informa che Jerry è stato visitato e non gli sono state riscontrate fratture: probabilmente aveva sì subito un urto e ne era rimasto intontito ma, non risultando danni gravi, era stato rilasciato negli ampi spazi di campagna dietro al centro, come da protocollo.
Dopo lo stupore e la gioia, mi subentra il rammarico: “Ma non potevate almeno mandarmi una foto, o un video?!” Mi dà ragione, ma il loro veterinario aveva anche altri animali da visitare, e insomma, capisco che per il mio hanno fatto un’eccezione: neanche per loro i topi rientrano, di solito, tra gli animali da salvare.
Mi fa pensare il fatto che non basta che un animale soffra, per aiutarlo: perché abbiamo diviso gli animali in base all’utilità che hanno per noi – si tratti di fatica o di compagnia – o alla nocività o al fastidio che ci arrecano, sempre a noi.[2] Nel primo caso li proteggiamo e li curiamo, nel secondo – se per noi sono nocivi o anche soltanto “brutti” – con loro non cerchiamo forme di convivenza, ma semplicemente di eliminarli.
Immagino che, se in mezzo alla strada ci fosse stato un gatto o un cane ferito, qualcun altro si sarebbe fermato. Per un topo no: che morisse schiacciato da un’auto o per un sasso in testa o mutilato in una trappola o avvelenato da un topicida con una morte lenta e atroce, la cosa non avrebbe turbato l’animo di molti.
Eppure è tempo di considerare, io credo, che occuparsi di animali non ha meno importanza che occuparsi di qualsiasi altro argomento, compresa la politica, cioè la pratica, o l’arte, che ci dovrebbe consentire di vivere, pur diversi, nella stessa polis. Se sentissimo che il nostro posto nel mondo è accanto e non sopra, a tutto ciò che ci circonda – partendo dagli animali, per proseguire con le piante, e poi perfino con le pietre[3]– ciò ci farebbe sentire parte di un tutto che ci ospita e a cui apparteniamo[4].
Se questo sentimento fosse forte, ma veramente forte, ci penseremmo due volte, prima di spianare una montagna, disboscare una foresta, distruggere habitat selvatici e inquinare aria, fiumi e oceani: sentiremmo dentro di noi che stiamo facendo del male direttamente a noi stessi, segando il ramo su cui siamo seduti, secondo la celebre metafora.
Quando sento dire: “Dobbiamo salvare il pianeta!”, vedo lo scarto che ci impedirà di farlo, finché considereremo “il pianeta” un oggetto, rispetto a noi soggetto, come qualcosa che sta lì davanti a noi e di cui noi ci dovremmo prendere cura: quando? Quando avremo tempo, dopo che avremo sbrigato altre “cose” che ci premono di più.
Ci vuole uno sforzo enorme per comprendere che siamo noi il pianeta, e che noi, per salvarci, dovremmo volere a noi stessi così tanto bene da fare di tutto per essere felici.
Ma per essere felici è necessario conoscere chi si è e qual è il proprio bene: e per quanto questo sembri facile, facile non è[5].
[1]Centro Recupero Animali Selvatici, Strada Statale 16, 2287/C – 45038 Polesella (RO). Tel. 339 4682583 –
e-mail: info@ambulatoriotarricone.it – Su Facebook: Centro Recupero Animali Selvatici Polesella.
[2] Siamo sempre noi il riferimento di ogni criterio, noi il criterio di ogni valore, noi il centro del mondo! (Nota mia).
[3]Vedi lo straordinario film-documentario Bestiari, Erbari, Lapidari, regia di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, 2024.
[4]Per un approfondimento filosofico della questione qui appena accennata: Emanuele Dattilo, Il dio sensibile. Saggio sul panteismo, Neri Pozza, Vicenza, 2021.
[5]Per la conoscenza di sé come condizione della propria felicità: Alessandro Biral (1942-1996), Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Roma-Bari, 1997.