Vi è spazio per un Terzo Polo in Italia?
12 Maggio 2023Castigat ridendo mores: a proposito del libro “La bussola del dubbio”
19 Maggio 2023Hanno inventato il calcio, il progressive rock, hanno edificato cattedrali insigni, borghi incantevoli e una capitale sontuosa. Vantano una letteratura corposa e turgida di capolavori e la loro lingua si è imposta come veicolo universale. Hanno elevato lo scolarsi pinte di birra al pub alla dignità di una liturgia laica. Hanno sì rubacchiato in giro per il mondo ma hanno anche diffuso civiltà e il progresso umano deve loro un contributo essenziale. La teoria del contratto sociale, il calcolo infinitesimale, la teoria evoluzionistica, i principi della meccanica, i Beatles e Jesus Christ Superstar. Insomma, tanta roba.
Ciò non toglie che gli inglesi sono dei simpatici pazzi (come pure le vicende della Brexit hanno recentemente confermato). Per chi nutrisse dubbi consiglio il godibilissimo saggio di Francesca Sgorbati Bosi “Nobili contraddizioni. Vizi e virtù dell’aristocrazia inglese del Settecento”. L’Autrice è un’affermata saggista, esperta e appassionata del Settecento francese, periodo che ha sviscerato tramite moltissime pubblicazioni, regalandoci uno sguardo attento e curioso, affettuosamente “pettegolo” (del resto “Guida pettegola al Settecento francese” è uno dei suoi “classici” più rinomati). Una scrittura scorrevole e briosa ma niente affatto banale e, cosa non scontata, sempre sostenuta da un monumentale lavoro di preparazione e documentazione rigorosa tratta da fonti dell’epoca, le più disparate.
Con l’ultimo parto, Sgorbati Bosi rimane nell’amato Settecento ma attraversa idealmente la Manica e si cimenta per la prima volta col mondo inglese (e in quella che viene ricordata come Era georgiana). Per la Perfida Albione è un secolo di stabilità interna, dopo le turbolenze del Seicento; con la Glorious Revolution gli inglesi si sono liberati di quei rompiscatole degli Stuart e hanno finalmente deliberato (Settlement Act del 1701) che il re potrà e dovrà essere solo protestante e i cattolici, dunque, se la mettano via una volta per tutte. Insomma, sostanziale pace interna. Anche all’estero, eterna rivalità con i francesi ma certo non c’è come nel 1588 un’Invencible Armada che si aggira minacciosa per il Canale. L’invidiabile situazione (di pace interna e relativa pace esterna) diventa per gli inglesi l’occasione per dedicarsi allo studio di come “diventare grandi”, per costruire, nel secolo successivo, un incredibile, possente, Impero e diventare i dominatori del mondo. Ora, per diventare il dominatore del mondo devi averne la possibilità e la forza, ça va sans dire, ma anche la convinzione di “doverlo” fare, di adempiere in qualche modo ad una missione che ti viene affidata da un qualcosa di superiore.
Ed è precisamente in questo periodo che in Inghilterra si costruisce la convinzione, negli inglesi tutti, che loro sono i migliori rappresentanti della specie umana nel mondo. Sono i più onesti, equilibrati, coraggiosi, riservati, virtuosi. Dunque, retropensiero quasi necessitato, sono quasi costretti a esportare in giro per il mondo il modello di vita inglese (come non a caso fa Robinson Crusoe anche quando si trova su un’isola da solo). Ma attenzione: non siamo alla narrazione del secolo successivo, intrisa di pregiudizio razziale, del White Man’s burden, il fardello dell’uomo bianco di Kipling. Non si tratta di uomo bianco vs. uomo nero. Qui, semplicemente, gli inglesi sono i migliori di TUTTI, anche dei vicini di continente. Non sono avidi e profittatori come quei bottegai degli olandesi, sono riservati e morigerati altro che quegli sciamannati degli italiani, sono virili e semplici non come gli effeminati francesi. Appunto, i francesi.. gli eterni rivali.
In questo scenario, e qui il tema del saggio della Sgorbati Bosi, gioca un ruolo fondamentale quello che forse riduttivamente possiamo chiamare Galateo. L’ Autrice lo spiega benissimo nel primo capitolo del libro: “in Inghilterra, fin dai primi anni del Settecento, si elaborò un complesso sistema di regole comportamentali con scopi precisi: differenziarsi in tutto dai francesi (gli eterni nemici), liberarsi di ogni loro influenza e soprattutto forgiare una nazione di eroi capace di conquistare il mondo”. Questo sistema di regole comportamentali sarà chiamato politeness (potremmo tentare di tradurla con “etichetta”) e riguardava il modo di parlare (la pronuncia distingueva moltissimo la classe sociale), la capacità di scrivere ed esprimersi correttamente e tutta una serie di virtù da esibire (soprattutto esibire poi, in privato..) come appunto la misura, il controllo, una virile audacia e così via. Ma, osserva l’Autrice, questa vera e propria mania per la politeness divenne un vero e proprio strumento di distinzione sociale. Si impose di fatto come tratto distintivo della nobiltà, di una classe cioè assolutamente privilegiata, ovviamente molto ristretta, che riuscì a porsi e mantenersi – incredibilmente con il consenso di tutte le classi sociali – come la classe di eletti che naturalmente e doverosamente era chiamata a governare e comandare nel Paese. Fu indubbiamente un capolavoro comunicativo perché lo status di privilegio dell’aristocrazia non fu mai messo in discussione e accettato come naturale e in quanto tale “giusto”.
Come tutte le costruzioni artificiali, la gestione pratica della cosa si scontrerà però con la realtà, con una serie di contraddizioni – da qui il titolo del saggio – al limite del comico che nel libro sono ampiamente e gustosamente raccontate. La politeness era una risposta alle smancerie delle buone maniere alla francese eppure i nobili inglesi facevano a gara per importare di nascosto vesti e tessuti preziosi da Parigi, le altre nazionalità erano, in comparazione ai britannici, praticamente dei minus habens eppure il Gran Tour era un must, l’ipocrisia era esecrata come negazione della virtù tutta inglese della sincerità e della schiettezza ma pochi ambienti sociali come la nobiltà inglese erano un concentrato di finti sorrisi e gossip velenosi.
Infine, tutta questa costruzione mentale era decisamente maschilista. Le donne erano ritenute inferiori, ci doveva guardare dal fornire loro un’istruzione (perché poverette, non “si illudessero” di poter competere intellettualmente con gli uomini) e soprattutto dovevano stare al loro posto. Facile a dirsi.. le donne dell’aristocrazia, per non confondersi con le donne della plebe o quelle scostumate delle francesi o italiane, dovevano avere in società un atteggiamento casto e umile, modesto e rispettoso e non prodursi in mossette e lazzi, nessun atteggiamento civettuolo o frivolo. E dovevano stare zitte (perché non all’altezza di sostenere una conversazione con gli uomini). Ma, ecco qui l’ennesima contraddizione, dovevano anche, le dame altolocate, non mettere in difficoltà le pubbliche relazioni dei loro augusti mariti e quindi dimostrare interesse ai discorsi degli astanti (maschi, ovviamente). Con un delizioso ossimoro, Sgorbati Bosi osserva che era loro richiesto un “eloquente silenzio”. Come potesse, questo eloquente silenzio, concretizzarsi visto che la politeness imponeva di non eccedere nelle espressioni facciali (non fosse mai che venisse interpretata come civetteria..) resta un mistero e una tra le molte contraddizioni di cui ci racconta la brillante saggista. Che si insinua curiosa e irriverente nella vita dei nobili, fino a ritrovarci con loro nella casa di campagna, al club, a teatro, intorno al tavolo da gioco, al bordello, in viaggio in Europa.. Sempre con affettuosa e occhiuta impertinenza e con una scrittura brillantissima.
Da leggere tutto d’un fiato.