
Il fondo del barile
28 Novembre 2023
Scontro di civiltà, lettura forzata e semplicistica delle guerre in corso (e trascorse)
6 Dicembre 2023C’è chi si è liberato del vizio del tabacco ricorrendo alla sigaretta elettronica. Parecchi sono riusciti
nell’intento, con loro buona soddisfazione: possono anche scegliere il gusto preferito (menta o altro)
e possono perfino usare un liquido con “nicotina zero”. Non hanno rinunciato al fumo, ma al
tabacco e alla nicotina sì.
Altri invece hanno voluto o dovuto lasciarsi alle spalle il caffè e si sono convertirti al
decaffeinato, che oggi non è più di dubbio sapore come un tempo e lo si trova di un gusto e di una
qualità del tutto equivalenti alle versioni con caffeina. Del resto, il gusto del caffè non è che risieda
nella caffeina in sé. Il succedaneo è all’altezza della bevanda classica.
C’è poi chi, come me, ha scelto di abbandonare quasi del tutto l’alcol e si è convertito alla
birra analcolica, che si comincia a trovare buona e gustosa anche in Italia (mentre ci sono paesi
come la Spagna in cui la birra senz’alcol è addirittura di qualità eccellente ed è normalmente
reperibile perfino nei bar e nei ristoranti). E comincia poi a diffondersi perfino la versione
analcolica dei vini, in modo più stentato dalle nostre parti perché, si capisce, le resistenze culturali
al prodotto senz’alcol sono da noi più forti: il vino senz’alcol? Orrore! Sacrilegio! È una
contraddizione in termini, dicono parecchi. È un’offesa alla tradizione! Come se il buono del vino,
cioè il gusto e il sapore, risiedesse nella parte alcolica della bevanda.
Già, le tradizioni. Quelli che aborrono queste versioni analcoliche sono poi magari spesso
quegli stessi che quando vanno all’estero si sentono perduti se non trovano gli spaghetti al
pomodoro o la lasagna. Sono ancorati alle proprie abitudini e tradizioni culinarie. Le tradizioni…
Le tradizioni culinarie si concretano in Italia, che so, nella “pummarola” (al Sud) e nella polenta (al
Nord). Si dimentica che in fondo i pomodori e il mais ci sono venuti dalle Americhe giusto qualche
secolo fa, con la scoperta del Nuovo Mondo: un tempo che è un battito di ciglia rispetto alla vicenda
terrena della specie homo sapiens. Ma poco prima di allora, i Romani e anche gli uomini del
Medioevo non ne sapevano mezza di pomodori e granturco, né di tanti altri prodotti che ci sono
arrivati d’oltreoceano e (prima d’allora) di tanti altri cibi di cui siamo debitori alla cultura agricola
degli antichi Arabi e che ora consideriamo parte costitutiva della nostra tradizione alimentare.
Dunque, i cambiamenti (buoni o cattivi) sono inevitabili anche nella storia
dell’alimentazione. E veniamo con ciò a parlare della cosiddetta carne “sintetica”, che in realtà
sintetica non è affatto. Non è mica di plastica. E non è nemmeno un prodotto di sintesi in senso
proprio. Meglio sarebbe chiamarla “carne coltivata”, perché si tratta in realtà di un alimento del
tutto naturale, ottenuto dalla coltura in vitro di cellule staminali (per lo più bovine), con un processo
del tutto naturale in cui non viene affatto alterata la fisiologia delle cellule che si riproducono. Ciò
che ne risulta, alla fine, è solo una bella porzione di carne, per ottenere la quale si utilizza un
“bioreattore”, ossia un apparecchio del tutto simile a quelli già largamente in uso per la produzione
di altri alimenti, come la birra e lo yogurt. Ed è un pezzo di carne che ha tutte le caratteristiche
nutritive e organolettiche di una comune bistecca. Si tratta di un prodotto che non è ancora entrato
nel mercato europeo: l’EFSA (l’Autorità Europea sulla Sicurezza Alimentare) deve ancora
approvarne la commercializzazione.
Frattanto molti di noi già mangiano, magari senza avvedersene e senza notare quanto
riportato dall’etichetta alimentare, cibi che contengono farina (importata e certificata) di grillo (da
allevamenti controllati). Sì, di grillo, precisamente. La quale, oltretutto, risulta essere altamente
proteica e nutriente. C’è poco da storcere la bocca: alla metà di questo secolo saremo sulla Terra,
pare, circa 10 miliardi d’individui. Con i relativi e crescenti fabbisogni alimentari da soddisfare.
Grilli, alghe marine ed altro ancora: a certi cambiamenti alimentari bisogna… fare la bocca. Del
resto, a pensarci bene, molti di noi non apprezzano e consumano con gusto quella specie d’insetti
marini che sono i crostacei?
Il problema vero e serio non è se mangiamo rane, lumache o serpenti, bensì se abbiamo la
garanzia di farlo con i dovuti controlli igienici e sanitari. Ma resta fin qui inevasa la domanda
cruciale a cui non abbiamo ancora risposto: perché mai dovremmo nutrirci di carne coltivata,
anziché squartare e grigliare dei bei pezzi di manzo o d’altri mammiferi o di avicoli? Ebbene,
sorvoliamo pure sulle ragioni etiche magari sacrosante degli animalisti. Facciamo pure il caso di chi
non si schioda dall’idea che i sapiens come noi sono nati e cresciuti onnivori come i maiali e che
pertanto vogliono continuare a mangiare di tutto, carne compresa.
Ci sono però altre ragioni per optare per l’abbandono (libero e facoltativo) della carne
macellata in favore del suo succedaneo di laboratorio. La carne-carne con cui oggi ci alimentiamo è
riccamente “nutrita” di ormoni e antibiotici, dei quali il nostro organismo farebbe volentieri a meno.
Ma soprattutto c’è il fatto che gli allevamenti intensivi, specie quelli bovini, sono causa di uno
smisurato consumo di risorse: risorse idriche, risorse agricole, risorse di suolo. Con quello che serve
per alimentare un capo di bestiame, si potrebbero nutrire di vegetali (inclusi quelli proteici) molte
persone in più. Non basta. Gli allevamenti sono una causa, per niente trascurabile, di emissioni
nell’atmosfera di CO2, quella famigerata anidride carbonica che va sistematicamente ad accrescere
il noto “effetto serra”, concausa a sua volta, come si sa, del riscaldamento globale del pianeta, con
tutto ciò che di negativo che ne consegue (scioglimento dei ghiacciai e delle nevi perenni,
innalzamento del livello delle acque, mutamenti climatici ecc.).
Ci asteniamo qui dal riportare i dati (peraltro facilmente reperibili nel web) sull’impatto
ambientale degli allevamenti intensivi. Ma s’intuisce che ci sono ottime ragioni (certo non gradite
ad allevatori, macellatori e macellai) per convertirsi (avendone la facoltà e senza obbligo per
nessuno) al consumo della carne “artificiale”, che, come detto, non è affatto tale.